il Giornale, 20 giugno 2024
Classe 2005. Giovani, carini e fortunati
Giovani, carini e fortunati – almeno secondo i loro predecessori «rosiconi» – questi ragazzi dello zerocinque, che si sono avviati alla maturità, che ancora sopravvive come spauracchio di passaggio tra l’eta dell’innocenza e quella adulta, con nello zaino il consueto carico di ansie e senso di inadeguatezza, stretti tra la borraccia e il panino dentro il domopak. Cose che, sandwich compreso, loro poverini non lo sanno ma li accompagneranno per tutta la vita, a beneficio di strizzacervelli, gastroenterologi e venditori di manuali di self-help.
Fortunati, dicevo, perché le sette tracce ministeriali che si sono trovati davanti ieri mattina con la bocca impastata di cinque caffè e un croissant maldigerito sono in fondo riflessioni malinconiche alla portata di tutti, come del resto anticipato dallo stesso ministro, che poche ore prima della prova aveva promesso: «Saranno tracce interessanti e abbordabili. Credo che non ci saranno traumi o particolari preoccupazioni al termine di questi elaborati». Promessa mantenuta, a occhio. Alla fine questi adulti sanno essere leali, dài.
Se c’è un fil rouge tra le sette idee partorite dai tecnici del ministero (promossi anche dall’Accademia della Crusca: «Tracce azzeccate, fattibili e interessanti») è una certa tendenza all’intimismo, a un certo qual disagio esistenziale che emerge prima tra tutti nella poesia di Giuseppe Ungaretti Pellegrinaggio, una riflessione sulla guerra vista come itinerario personale nell’annientamento («Ho strascicato/la mia carcassa/usata dal fango/come una suola/o come un seme/di spinalba») con un ritmo whatsappato che non sarà dispiaciuto a molti diciannovenni. Ma che emerge anche nelle frasi di Nicoletta Polla-Mattiot che incoraggiano alla riscoperta del silenzio non come indizio di isolamento, di FOMO, ma come strumento comunicativo a sé che si nutre di quell’arte trascurata che è l’ascolto. E in fondo anche il destino del pirandelliano Serafino Gubbio operatore è quello di un uomo che soccombe di fronte alla macchina: «L’uomo che prima, poeta, deificava i suoi sentimenti e li adorava, buttati via i sentimenti, ingombro non solo inutile ma anche dannoso, e divenuto saggio e industre, s’è messo a fabbricar di ferro, d’acciajo le sue nuove divinità ed è diventato servo e schiavo di esse. Viva la Macchina che meccanizza la vita!». Dalla cinepresa di Serafino all’intelligenza artificiale che si allunga minacciosa come un’ombra, il passo è meno lungo del secolo e qualcosa che vi passa. E il testo di Maurizio Caminito su «profili, selfie e blog» medita sulla scomparsa dalle nostre vite del diario segreto come territorio del silenzio interiore, come attrezzo di ricerca del sé.
Non presentano insidie nemmeno i testi sulla guerra fredda di Giuseppe Galasso, sulla bellezza dell’Italia nella Costituzione di Maria Agostina Cabiddu e ancora meno l’elogio dell’imperfezione di Rita Levi-Montalcini, argomento fertile ed entusiasmante, che comprende per di più anche l’antidoto a un eventuale strafalcione: chi potrebbe mai contestarlo visto che di imperfezioni si parla?