Corriere della Sera, 20 giugno 2024
Lo scopo principale di «Blob»? Destrutturare il linguaggio
In questi giorni, in versione extra long, Blob sta celebrando i suoi primi 35 anni. L’altra sera, per esempio, c’era una puntata dedicata a Umberto Bossi: da Roma ladrona agli abbracci con Berlusconi, dalla raccolta dell’ampolla con le sacre acque del Po agli scontri con Berlusconi, dalle interviste con Gianfranco Funari alle dichiarazioni di antifascismo.
La prima impressione è che anche Blob stia subendo l’effetto Techetechete’, il modello produttivo più in uso in Rai.
Ma la nostalgia non si addice a Blob, in onda per la prima volta il 17 aprile del 1989 sotto l’attenta regia di Marco Giusti ed Enrico Ghezzi (che in seguito avrebbero divorziato).
Si è scritto che, insieme con Chi l’ha visto?, Blob è pur sempre l’ultima sacca di resistenza guglielmina (la famosa Rai3 di Angelo Guglielmi). Ogni tanto si fa vivo anche Un giorno in pretura, con il suo piccolo strascico di polemiche.
Dopo 35 anni, molta televisione è diventata Blob, nel senso che le teche non sono più soltanto un deposito industriale ma diventano una risorsa espressiva. Le intenzioni del Blob delle origini sono solo un ricordo. Nello spirito situazionista di quegli anni e di certi ambienti intellettuali, lo scopo principale era quello di destrutturare il linguaggio.
L’operazione era principalmente linguistica ed esprimeva come nessun altro programma uno stato d’animo: la voglia di frammentare, di sconnettere, di ritagliare; il desiderio iconoclasta di abbattere i miti delle sequenze compiute; il trionfo del regno dell’uguale, la voluttà di scontrarsi con le gerarchie sintattiche.