Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2024  giugno 20 Giovedì calendario

L’arte del dubbio di Tullio Pericoli

L’unica cosa certa è il dubbio. Su di sé, in primo luogo. La soddisfazione, per un grande artista, pittore o scrittore, è un attimo, niente di più. Il resto è interrogazione e ripensamento. «Per quanto riguarda il mio lavoro – dice Tullio Pericoli – vincere un premio non è come vincere una partita di tennis». Il perché è semplice: «Nel tennis ci sono confini che non si possono oltrepassare, righe, punti la cui somma dà una vittoria che è indiscutibile. Nel mio mestiere ogni punto è incerto e soggetto a giudizio, ogni vittoria può essere discussa, ogni risultato può non essere giusto». Semplice, appunto. D’altra parte, Pericoli ama le cose semplici, basta guardare le sue ultime tele, dove nulla è superfluo né soverchiante. E tra le cose semplici c’è anche lo stupore quasi infantile di fronte al Premio internazionale Feltrinelli che gli verrà consegnato oggi all’Accademia dei Lincei. Il prestigio è presto detto attraverso i nomi dei premiati storici dal 1953: nella sezione delle Arti, per scultura e pittura, sono pochissimi: Marino Marini, Georges Braque, Henri Moore, Joan Miró e Giacomo Manzù, ultimo italiano nell’83. Poi il vuoto fino ad Anselm Kiefer, premiato l’anno scorso. Pericoli la prende con un misto di allegria e di imbarazzo: «Quando ricevi un premio in tarda età, la prima domanda che ti fai è se te lo meriti. È come un risveglio, una scossa che ti spinge a ripercorrere il passato». Senza necessariamente ripercorrere il passato, dalla partenza da Colli del Tronto all’arrivo a Milano nel 1961, fino alla mostra di Palazzo Reale di un paio d’anni fa, prendiamola al volo, questa occasione di bilancio: bilancio provvisorio, visto che Pericoli a 87 anni non smette di andare ogni giorno nel suo atelier, per lavorare, scrivere, leggere, pensare, immaginare, disegnare, soprattutto dipingere. «Non è la prima volta che mi chiedo se la mia vita di artista sia riuscita o no, e ogni volta mi trovo nell’incertezza. Sono contento di aver fatto la vita che mi sono scelto, ma nello stesso tempo sento una specie di fallimento, il fallimento che nel nostro mestiere si prova inevitabilmente, perché è come se non si riuscisse mai a raggiungere quel che si è previsto, ciò che hai inseguito e che avresti potuto scoprire. È un senso di perdita, di insoddisfazione…». 
Intanto, c’è una motivazione che parla di una «cifra espressiva di grande originalità» e di una sperimentazione consapevole che va dai ritratti fino ai dipinti più tardi, ma anche di una lunga «meditazione sul segno grafico che caratterizza tutti i registri espressivi dell’artista». Si legge, insomma, una linea di estrema coerenza «grafica» che rende inconfondibile l’opera di Pericoli, sia che si tratti dei volti disegnati di Samuel Beckett o Italo Calvino, sia che si tratti delle amate colline marchigiane – le colline da cui è partito, sempre immaginate e ritrovate – dipinte a olio su delicate variazioni, melodie, mobili armonie di graffi, segni, forme, tratti, linee, coaguli di colore. Senza dimenticare che «grafia e scrittura» sono due concetti onnipresenti nell’opera di Pericoli: «Da sempre, continuo a disegnare e a dipingere come se scrivessi». 
Detto ciò, non gli parlate di progetto e tanto meno di carriera. Il bello di Pericoli è che ragiona e parla senza sforzo, con la leggerezza naturale con cui la mano disegna e dipinge. Nessuna enfasi. Difficile trovare un artista che si dia meno arie di lui. «Tutto accade un po’ a tua insaputa, il progetto intenzionale non c’è perché è quasi implicito, insito in questo lavoro: nell’arte c’è la pretesa inevitabile, la tensione, il tentativo di aggiungere un piccolo mattone per un modo di vivere migliore, una tessera per ridisegnare il mondo. Non è una questione personale, ma fa parte della cosa in sé». Tensione senza intenzione. È un mestiere, dice Pericoli pensando a Giacometti, che richiede coraggio nel rimettersi in gioco ogni volta. 
Il riconoscimento? «È qualcosa di molto gradito. Ne abbiamo bisogno, e però, come dicevo, subito dopo viene anche il dubbio: è giusto o non è giusto? Con la vecchiaia cominci a guardarti da fuori, ad essere lo spettatore di te stesso, e il premio è come se fosse dato a tutt’e due: all’artista che lavora e all’artista che assiste al proprio lavoro. Dunque, ha due significati diversi. Per chi continua a lavorare è un incentivo a proseguire; per l’altro io che sta di lato, è un’occasione per riflettere su di sé, per guardare il passato con occhio giudicante». È vero, ma c’è un paradosso non secondario: Pericoli continua a comportarsi come se l’età gli scivolasse addosso; cosa rarissima, per lui la ricerca prosegue come una sfida al tempo: «Credo di essere fortunato: in effetti ho ancora voglia di cercare e di capire, non posso che ringraziare il padreterno che mi dà ogni mattina la voglia di uscire dal letto, di alzarmi e di venire in studio a lavorare. È un dono, mentale più che fisico, quasi indipendente dalla mia volontà». 
Bisogna ringraziare, oltre che il padreterno, anche il Premio Feltrinelli per non aver accennato a un riconoscimento alla carriera. «Carriera è una parola per me poco felice e poco utile a capire come è andato il mio percorso. Non ho mai seguito uno scopo o una meta, ho girovagato, cercando di soddisfare non una carriera ma una passione, inseguendo temi diversi come il ritratto o il paesaggio, e campi diversi dalla satira al teatro. Potrei aggiungere che questo per me è stato vero sin da ragazzo…». Qui Pericoli ha un cenno di insofferenza verso di sé come per dire che è inutile tornare sempre al passato. E invece è utile: «L’idea di carriera contraddice il mestiere dell’artista, anche se immagino che ci siano degli artisti che si prefiggono il riconoscimento o il risultato. Da ragazzo sono partito da un suggerimento di mio zio che mi fece capire che, diversamente da mio padre che aveva intrapreso una carriera, la mia vita poteva seguire una passione, e così è stato». 
Una delle frasi che piacciono di più a Pericoli ha a che fare con il mondo dell’infanzia, quando da bambini giocando con la fantasia si dice: «Facciamo che io ero…». Il «facciamo che io ero» per Pericoli viene fuori dalla confidenza quotidiana con la materia pittorica. Quel rapporto fisico tra la superficie della tela, la punta del pennello o della matita, la punta delle dita, il braccio dell’artista, quel contatto tra oggetti e corpo da cui nascono la suggestione, l’emozione, l’energia. Pericoli l’ha raccontato benissimo almeno in un paio di libri, come I pensieri della mano e Arte a parte. Ora però c’è qualcosa in più, qualcosa di nuovo: «Sono completamente assorbito dal dipingere, non facendo più altro, non collaborando più con i giornali, per esempio. Ed è forse la prima volta nella mia vita. Ovviamente non so dire come sia il risultato, mi chiedo sempre: che senso ha, ma perché, cosa stai facendo... Ecco, mai dimenticare che la parola bilancio somiglia a bilancia, con quell’idea di piatti instabili, mai statici, qualcosa che oscilla continuamente tra ansia e piacere…».