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 2024  giugno 20 Giovedì calendario

Un reportage reportage “etilico” in terra d’astemi

Alle sei e dieci della sera il rito ha inizio, e l’iniziato “entra nel drink” come in un sogno ovattato, dolcissimo: ogni santo giorno Lawrence Osborne si concede la sua sacra dose di alcol, lasciandosi trasportare come Dante nel paradiso artificiale. Finché, per trasgressione, curiosità e desiderio di disintossicarsi, egli decide di affrontare “un viaggio alcolico in terre astemie” alla ricerca del segreto della felicità dei sobri. È nata così Santi e bevitori, una raccolta di reportage, in Italia da martedì con Adelphi a quasi dieci anni dall’edizione originale. Ce ne ha messi due invece l’autore per zigzagare nei Paesi più proibizionisti e stilare dispacci da Milano al Cairo, da un gin tonic negato a uno spumante trafugato: le mete sono perlopiù islamiche – laddove l’alcol è vietato o mal tollerato –, ma esistono enclavi di tassativa sobrietà nelle ex riserve indiane d’America o in New Jersey, dove è andato a morire il suocero di Osborne, musicista talentuosissimo, stroncato a 44 anni dai sensi colpa per essere sopravvissuto ad Auschwitz e dalla cirrosi epatica.
Ci si commuove e si ride con questo Lawrence d’Arabia effervescente ma non evanescente: la sua “odissea da etilista” è un racconto laterale dello scontro tra Oriente e Occidente, una battaglia tra cosiddette civiltà che si consuma sul corpo delle donne e nel contenuto delle bottiglie. Mentre in Oriente l’alcol è “il primo simbolo di Satana” e dei lascivi nemici di Allah; l’Occidente non sa se “indignarsi di più” per il velo alle bambine o il succo di frutta al brindisi. Qui la Resistenza, “la lotta al fondamentalismo”, si fa al bar, “una chiesa” laica nominata per la prima volta nel 1591 da un inglese famoso per aver criticato Shakespeare. Sicuramente un ubriacone.
“Soltanto in mezzo agli astemi ti rendi conto di quanto sei in debito con l’alcol”: Osborne è erede della malattia etilica per parte di padre e di madre. I suoi tentativi di sobrietà, in questo pellegrinaggio, falliscono: l’unica vacanza totalmente analcolica in Oman finisce con una relazione distrutta. E una fidanzata incazzata di non aver bevuto champagne nemmeno a capodanno.
Tra i più raffinati flâneur contemporanei, Osborne (Londra, 1958) è reporter, saggista, romanziere e nomade, di stanza a Bangkok come a New York e Parigi: conosce l’inferno dell’abuso etilico, dai vuoti di memoria ai tremori, ma quando scrive ha mano ferma e prosa (pro)secca, limpida e pittorica. Nei suoi tranche de vie c’è Giava, dove bere una birra sotto il ritratto di Bin Laden attira i rimbrotti delle anime belle: giovani di bianco vestiti per cui l’alcol è “una piaga, una malattia dell’anima”. Un’altra volta l’autore brinda con la “matriarca araba” del tavolo accanto: “Inshallah”, le dice lui alzando il calice di gin. “Un bestemmia fatta e finita, ma tanto il marito non la sente”. Ad Abu Dhabi c’è il “vuoto anale controllato” con ghetti alcolici per turisti e lavoratori stranieri, mentre a Islamabad ubriacarsi è un’impresa difficile quanto pericolosa: i pochi locali internazionali vengono fatti saltare in aria dai terroristi, eppure è proprio in quella città, nell’intimità delle case, che “si trovano i più grandi bar del mondo” e il mercato nero degli alcolici vanta un giro d’affari di 30 milioni di dollari. È contraddittorio il Pakistan: registra un aumento esponenziale dei morti per alcolici fai-da-te e della tossicodipendenza giovanile, al contrario dell’Inghilterra dove l’alcol resta un antidoto alle droghe. Meglio l’“acquetta” della vodka o il signore dei whisky Johnnie Walker.
Esiste tuttavia un ponte tra Oriente e Occidente, “santi e bevitori”: il Libano, in cui “l’alcol è legale e largamente apprezzato” e si produce il patrio arak dall’anice. Beirut è (ancora per poco?) l’unico luogo del pianeta dove “il bar e il muezzin non possono avere la meglio l’uno sull’altro”, mentre nei territori di Hezbollah si può bere solo “succo di melagrana” guardando “passare i religiosi vestiti di nero con l’aria di chi rimugini su una bolletta della luce appena arrivata”. Anche in Egitto, ex culla del vino e della birra, si riesce a sorseggiare di straforo uno spumante rosato locale “in uno scadente bicchiere con dentro una formica morta”. E persino la Turchia del gran bevitore Ataturk sta diventando intollerante, benché a Istanbul scorra il raki, una specie di assenzio. Infine, la lubrica Thailandia buddista è minacciata dal crescente integralismo: sopravvivono però alcuni club all inclusive di prostitute e drink, frequentati perlopiù da malesi in trasferta per evadere dalla loro sharia e godersi, in santa pace, cicchetti e ragazze, più cari i primi delle seconde.
Come ogni trip di rispetto, iniziatico o labirintico, quello di Osborne è disseminato di paradossi: sono gli arabi ad aver inventato i distillati e l’Islam non è sempre stato autoritario o censorio, ma anzi patria di poeti erotici, omoerotici, intellettuali beoni e lussuriosi, quasi come gli antichi greci a cui si devono la fermentazione e il culto di Dioniso, il dio del sesso e dell’“ebbrezza, il più primitivo dei misteri”, e infatti fu scomunicato dai cristiani. Sacrale, rituale, orgiastico, il vino è stato vittima di purghe di qua e di là, in Occidente e in Oriente, dove anche oggi vivono minoranze – i drusi e i sufi – che bevono e amano liberamente e insieme. Osborne, invece, è un cultore del bar come “esercizio di solitudine”: blasfemo, sensibile, partigiano, spera di incontrare prima o poi “un alcolista musulmano”. Solo questo “mi fa sperare che la razza umana possa salvarsi”. Quantomeno alle sei e dieci della sera.