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 2024  giugno 20 Giovedì calendario

L’identità di Aramburu

Se si chiede a Fernando Aramburu quale sia la sua identità, non risponde: uno scrittore basco. Non sventola la sua lingua come una bandiera che si oppone alle altre. Non si definisce in base a una successione di dati biografici. Anche se è nato a San Sebastián, è cresciuto in una terra dilaniata dai fanatismi e ha conquistato milioni di lettori raccontando come nessun altro i Paesi Baschi e le ferite inferte dalla repressione e dalla violenza dell’Eta, la parola identità per lui merita una riflessione più complessa. E infatti dice: «Mi considero un uomo centrifugo. Con ogni libro che leggo, ogni film che vedo e ogni viaggio che faccio cerco di cambiare o rompere qualcosa dentro di me, sempre con l’obiettivo di lasciare ciò che è statico e conosciuto e rivolgermi in modo amichevole all’altro, a chi è lì davanti a me e non è come me, ma è ugualmente umano. Non mi sento un albero che sviluppa tutta la sua vita nel luogo in cui è germogliato il suo seme.
Sì, ho le mie origini, i miei sentimenti, le mie preferenze, ma tempo fa, quando ero giovane, intuivo che il mondo non finiva alla fine della mia strada e andavo via e incontravo altre persone e altre culture e un’altra lingua, e mi sembrava che questa fosse la cosa più interessante che si potesse fare».
La sua risposta arriva alla vigilia del Taobuk festival, che porterà a Taormina, da oggi al 24 giugno, oltre 200 ospiti da circa 30 Paesi per discutere sull’accezione e la valenza del concetto di identità, e che lo premierà con il Taobuk Award insieme al premio Nobel Jon Fosse, allo scrittore Jonathan Safran Foer, all’artista Marina Abramovi?, all’étoile Nicoletta Manni, ai registi Ferzan Ozpetek e Paolo Sorrentino, all’attrice Kasia Smutniak, alla cantante Noemi e al coreografo Moses Pendleton.
Aramburu, cosa intende con la parola identità?
«La consapevolezza che un individuo ha di sé in base al suo legame con gruppi o comunità di cui si considera parte».
Come concepisce il rapporto tra identità e alterità?
«Non credo che si possa stabilire una separazione netta. Ci definiamo continuamente in relazione agli altri, considerandoci come loro o contro di loro. Quando chiediamo a qualcuno chi è, è certo che la sua risposta non si limiterà all’immagine che gli viene restituita dallo specchio, ma farà riferimento alla consapevolezza che ha delle sue diverse appartenenze: al suo Paese, alla sua lingua, alla sua squadra di calcio, alle sue convinzioni politiche o religiose, alla gastronomia della sua regione. Allo stesso tempo ci dirà chi non è o non vuole essere».
Quando l’identità smette di essere una questione personale e diventa una questione politica?
«L’identità è sempre una questione politica poiché nasce come conseguenza del legame del cittadino con la polis. Sono quello che sono perché trovo la mia definizione in virtù di una realtà sociale. Guardi gli americani. Arrivano sulla Luna e la prima cosa che fanno è piantare la loro bandiera, proprio per riprodurre la comunità politica e culturale che permette loro di essere quello che sono».
Si può parlare di identità europea?
«È innegabile che dopo la Seconda guerra mondiale vi sia stato ungraduale riavvicinamento tra le nazioni europee. L’appartenenza a una struttura sovranazionale, la condivisione della moneta, l’integrazione nello Spazio Schengen e l’adesione a una moltitudine di accordi crea una comunità che senza dubbio contribuisce a favorire nei cittadini un sentimento di identificazione collettiva, nella misura in cui li rende consapevoli di tutto ciò che condividono. Non sono italiano, ma ogni volta che visito l’Italia ho la piacevole sensazione di essere a casa o almeno a casa di amici e parenti, cosa che non accade se visito, ad esempio il Giappone, il Burkina Faso o il Canada».
In alcuni dei partiti che hanno guadagnato maggiori consensi alle recenti elezioni europee, l’apologiadell’identità si traduce nella legittimazione del razzismo e della xenofobia. Come lo spiega?
«Questo non è nemmeno esclusivo degli esseri umani. È la difesa del territorio, dello spazio vitale riservato a chi è originario. Lo scimpanzé, il lupo o l’ippopotamo non usano mezzi termini o deviazioni culturali.
Attaccano senza indugio l’intruso che mette in dubbio la loro dominanza e arriva a lasciare un segno genetico e a rubare il cibo. Anche la xenofobia considera lo straniero un’anomalia del paesaggio e, in ogni caso, lo vede come una presenza sempre inquietante dell’ignoto e quindi pericolosa».
Che effetto può avere l’ascesa dei nazionalismi? Può indebolire la democrazia?
«Il nazionalismo è di natura tassativa.
Ti mette di fronte un elenco di requisiti obbligatori, quindi difficilmente si adatta alla democrazia come la conosciamo oggi. A volte nasce come una reazione angosciante e non come semplice e naturale patriottismo, sentimento che considero rispettabile. Ho conosciuto nella mia terra un nazionalismo aggressivo, postulato da cittadini che consideravano i propri segni identitari in pericolo di estinzione. Personalmente, ogni volta che sento qualcuno affermare che il Paese va salvato, scappo via».
Quale potrebbe essere una risposta valida alle piccole patrie, ai nazionalismi predominanti?
«Esistono piccole patrie. Perché non rispettarle? Perché non offrire ai loro cittadini garanzie che lo spazio dei loro affetti non rischi di scomparire e che un posto nella comunità globale sia loro riservato?».
Viviamo in un tempo di guerre.
Quale dovrebbe essere il ruolo dell’Unione europea?
«L’Unione europea non dispone di un’entità economica e militare sufficiente per affrontare con garanzie dissuasive le grandi nazioni predatrici che si contendono il dominio del pianeta. L’Ue è riuscita a creare uno spazio di valori e diritti e il peggio che potrebbe accadere è che smetta di crederci. Il ruolo principale, che può e deve svolgere in questo momento, è mostrare al resto del mondo che la democrazia continua a essere un sistema non solo valido, ma auspicabile».
Quale può essere il ruolo della letteratura nella costruzione di un’idea di convivenza?
«Credo che alla letteratura basti essere buona letteratura, significativa e magari emozionante e bella per coloro che si prendono la briga di avvicinarsi ad essa. Perché abbia un impatto sociale dovrebbe essere letta da milioni di cittadini e, a quanto mi risulta, questo accade raramente».