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 2024  giugno 18 Martedì calendario

Umberto Tozzi: “La malattia mi ha reso migliore. Ora il tour d’addio, ma la musica mi mancherà”

Strano tipo di popstar, Umberto Tozzi. Ha venduto 80 milioni di dischi in tutto il mondo, vinto un Sanremo e un Festivalbar, ha piazzato singoli al n.1 negli Stati Uniti (anche se nelle versioni in inglese cantate da Laura Branigan). Le sue canzoni sono finite in film celeberrimi come The Wolf of Wall Street, Flashdance, Spider-Man Far from Home, oltre che nella serie cult La casa di carta. E la sua Gloria si è ascoltata pure durante l’assalto di Capitol Hill: «Ribadisco quello che ho detto in quei giorni: scelgo l’amore, non l’odio». Ha vinto un Golden Globe e ha ricevuto una nomination al Grammy. Ci sarebbe stata materia per pagine e pagine di cronache e invece niente, poche notizie e zero pettegolezzi. Tozzi è un torinese schivo. Uno che ama la musica e per niente lo star system, con tutto ciò che comporta. «Non sono mai stato un playboy», sorride ricordando di aver sposato cinque volte la sua attuale moglie Monica Michielotto, con lui dal 1991. La dura esperienza della malattia (un cancro alla vescica e il covid durante la chemioterapia) lo ha un po’ cambiato, ma dopo 50 anni di carriera ha deciso di dire addio ai palcoscenici con un tour mondiale intititolato L’ultima notte rosa – The final tour che toccherà Europa, America e Australia, e che lo porterà alle Terme di Caracalla a Roma il 20 giugno insieme alla sua orchestra.
E pensare che voleva fare il calciatore.
«Forse è meglio che non l’abbia fatto. Avevo un grande amore per il calcio, ero a mio agio, giocavo bene. Dovevo passare una settimana a Coverciano per fare dei provini. Poi è andata diversamente».
È al passo d’addio con i live. Come si immagina senza musica?
«Devo solo ringraziare per tutta la gioia che ho vissuto. Ho avuto una vita piena di successi, di incontri, ho girato il mondo. Ho avuto la fortuna di restare quello che sono sempre stato, uno un po’ ribelle, un signor no. Non posso dire che non mi mancherà il palco, chi vive di musica sa di che parlo. Però ho davanti a me un progetto che mi piace tanto: stiamo allestendo una situazione sonora con fiati, archi, coristi, qualcosa di vicino a un’esperienza sinfonica. Il dopo lo racconterò quando tutto questo sarà finito».
La malattia lo ha cambiato?
«Mi ha reso migliore. Dopo quei due anni sono molto più disponibile rispetto al lavoro e ai nuovi incontri, sono più aperto. Oggi vivo con gioia tutte le giornate. È diventato un film a colori».
Ha iniziato come turnista. E stava per suonare in disco storico di Lucio Battisti.
«Eravamo sempre a Milano con gli altri del mio giro a caccia di un ingaggio. Eravamo alla Numero Uno, l’etichetta di Lucio e Mogol: registrammo delle session per Il nostro caro angelo. Poi Lucio scelse un altro chitarrista».
Come fu l’incontro con Battisti?
«Ci chiese da dove arrivassimo. Quando gli dicemmo che eravamo di Torino esclamò: “Ah, ma allora siete dei paraculi!”. Lo disse perché, all’epoca, il giro dei turnisti era quasi tutto milanese, e pensò a chissà quale spinta. Nei giorni in cui lavorammo insieme non ci offrì nemmeno un riso in bianco. Però anni dopo seppi che mi indicò come un grande innovatore della musica italiana e mi fece un enorme piacere. Era un gigante».

Pare che sui divani della Numero Uno ci fossero parecchi colleghi in attesa che poi hanno fatto fortuna.
«Gianna Nannini, Finardi, Edoardo Bennato. E Ivan Graziani, con cui divenni amico. Grande chitarrista».
Nel 1974 ha scritto “Un corpo e un’anima” per Wess e Dori Ghezzi, che hanno vinto Canzonissima. Però all’inizio non voleva cantare.
«Non mi piaceva la mia voce, quando la sentivo mi disturbava. Anche John Lennon aveva lo stesso problema, non sono l’unico. Ho capito tardi che invece era originale, che poteva trasmettere emozioni».
Cosa le ha fatto cambiare idea?
«Fino all’incontro con Bigazzi, un vero maestro, non pensavo di cantare io, non mi piaceva l’idea di fare il solista. Fu Alfredo Cerruti, un grande talent scout oltre che il cervello degli Squallor, a convincermi».
«Avevo inciso Donna amante mia, che non funzionò. Decisi che non volevo più fare la comparsa in un mio disco. Volevo i miei musicisti, dirigere gli arrangiamenti. Bigazzi mi disse: “Se non vendiamo stavolta ci buttano giù dal quarto piano”. Poi è nata questa canzone diversa dalle altre, non so spiegare come ma è nato uno stile».
E quella volta al Festivalbar?
«Era la serata finale, all’Arena di Verona. Staccarono la luce due volte, davo fastidio. Però Ti amo la cantò il pubblico».
In quegli anni c’erano De Gregori, Dalla, Venditti, Guccini. Come si sentiva in quel contesto?
«Erano artisti favolosi, ma io mi sentivo scollegato, fuori dal radar. I giornalisti preferivano cose “più colte”, era un po’ sottovalutato. Poi l’estero ha fatto giustizia, le mie non erano solo canzonette estive...».
Lei è sempre stato un artista schivo. Ma non ha nemmeno un episodio da popstar da raccontare?
«Mi definivano un vaffanculista. Ero antipatico, sono un po’ migliorato. Popstar mi sono sentito una volta a Santiago del Cile, 1982: scendendo dalla scaletta dell’areo vidi che in basso c’erano telecamere e una folla di giornalisti. Mi girai per guardare chi stessero aspettando. Poi vidi duemila persone sulla terrazza con gli striscioni. Pensavo che certe cose potessero succedere solo ai Beatles».
Ha ancora paura di volare?
«Sempre».
E ora come fa?
«Chiudo gli occhi e prego. Passo il tempo a parlare con Dio».