17 giugno 2024
L’amore tra Malaparte e la mamma di Gianni Agnelli
Estratto da “L’ultima dinastia”, di Jennifer Clark (ed. Solferino)
Dopo la morte di Edoardo, Giovanni Agnelli cominciò a sentire il peso dei suoi sessantanove anni. «Sono qui per continuare quello che avrebbe dovuto fare mio figlio», disse ad alcuni dirigenti quando tornò in ufficio dopo un periodo di lutto. Giovanni riteneva che per mantenere l’indipendenza della Fiat fosse essenziale il controllo della famiglia. Perciò nominò come vicepresidente al posto di Edoardo il ventisettenne nipote Giancarlo Camerana, marito della nipote preferita, Laura Nasi.
Gianni era ancora troppo giovane per quella carica, ma cominciò il suo tirocinio come erede. Il peso della improvvisa responsabilità, unito al dolore per la morte del padre, segnò per Gianni la fine della giovinezza. Ma era solo l’inizio.
Da Virginia, che aveva trentacinque anni, ci si attendeva che si adattasse placidamente alla condizione di rispettabile vedova. La sua situazione era complessa: alla morte del nonno i suoi figli ne avrebbero ereditato la fortuna, ma a lei spettava solo il patrimonio del marito. Dal punto di vista finanziario Virginia si trovava in una posizione piuttosto incerta.
Non era del tutto priva di potere, perché poteva prendere le decisioni finanziarie a nome dei suoi figli, tutti minorenni, ma qualsiasi sua scelta in proposito sarebbe stata severamente analizzata, considerato il modo in cui Giovanni aveva assunto la tutela dei nipoti figli di Tina. In questo frangente, sarebbe stato saggio indossare le gramaglie e affrontare con mansuetudine il proprio lutto, come dettavano le convenienze. Virginia non fece nulla del genere.
Alla fine dell’anno aveva un nuovo amante, lo scrittore e giornalista Curzio Malaparte. Virginia era attratta dall’ambiente artistico e si trovò a frequentare persone che appartenevano alla cerchia della cognata Kay. Uno di loro, il pittore surrealista Stanislao Lepri, si diceva fosse il suo amante all’inizio degli anni Trenta. La compagna di Lepri, Leonor Fini, dipinse nel 1939 il ritratto di Virginia che Gianni tempo dopo appese nella propria camera.
Se lo avesse cercato con il lanternino, non avrebbe potuto trovare un corteggiatore meno adatto. Malaparte era un avventuriero, che dopo aver vissuto la brutale esperienza delle trincee nel corso della Prima guerra mondiale, e aver riportato un danno ai polmoni in un attacco chimico nella battaglia di Bligny del 1918, aveva abbracciato con entusiasmo il fascismo. Nel 1931 però, la pubblicazione a Parigi di Tecnica del colpo di Stato, nel quale criticava Mussolini e Hitler, lo fece cadere in disgrazia con il regime.
Nel 1933 Malaparte venne espulso dal partito ed esiliato sull’isoletta vulcanica di Lipari, davanti alla costa della Sicilia. Cosa forse ancora più grave, non piaceva affatto al suocero di Virginia, che lo aveva rimosso dalla carica di direttore della «Stampa» nel 1931 quando lo scrittore aveva attaccato il regime.
Il licenziamento era stato sbrigativo. «Malaparte, qui dentro ci sono i soldi della liquidazione» gli aveva detto Giovanni. «Li prenda e, per favore, mi restituisca la busta»
Si suppone che la relazione fosse cominciata alla fine dell’estate o nell’autunno del 1935, solo qualche settimana dopo la morte di Edoardo. Malaparte era stato liberato dal confino ed era agli arresti domiciliari a Forte dei Marmi per attività antifasciste. Era stata la principessa Jane a notare per prima l’elegante uomo dai capelli scuri che passeggiava sulla spiaggia portando un cane bianco al guinzaglio. Aveva detto a un domestico di chiedergli di venire alla sua tenda.
«Aren’t you Malaparte?» gli aveva chiesto. «Vieni qui. Voglio che mi parliate. You are very good looking.» A trentotto anni, con i capelli pettinati all’indietro, il corpo unto di olio solare e le ascelle depilate, Malaparte sembrava un divo del cinema muto. Eroe decorato di guerra e autore di successo, portava con sé il frisson di pericolo dato dall’essere un oppositore del regime.
Gianni lo detestò praticamente dal primo istante. Era «leccato, profumato, e con giacca azzurra dai bottoni d’oro, lucido e unto, faceva sempre dei calembour, dei giochetti di parole che non trovavo divertenti» dichiarò in un’intervista nel 1976. Le donne di casa Agnelli la pensavano in modo diverso. Malaparte era talentuoso, amante della compagnia, interessante e divertente allo stesso tempo.
Maria Sole, sorella di Gianni, ricorda: «Eravamo soliti andare in giro in bicicletta con lui, e ci raccontava storie divertenti». Festeggiavano insieme le ricorrenze di famiglia, come il sedicesimo compleanno di Clara, celebrato con un pranzo alla trattoria Buonamico a Viareggio, uno dei posti preferiti degli Agnelli.
Per l’irrequieta Virginia, Malaparte era quanto di più lontano si potesse immaginare dai soffocanti obblighi del proprio mondo. Le motivazioni dell’interesse dello scrittore per lei erano forse meno nobili, ma secondo l’egocentrico racconto fatto in Donna come me, fu amore a prima vista.
«Fin dal primo giorno, fin da quando, volgendo verso me la tua nera testa di cavallo, mi hai per la prima volta incontrato con lo sguardo (la lunga criniera ondeggiava dolcemente sulle tue spalle bianche) hai sentito quel che di segreto, di misterioso, è nella mia natura. Hai capito che io non sono soltanto un uomo: ma donna, cane, pietra, albero, fiume.».
Il primo riferimento ufficiale alla relazione tra Virginia e Malaparte è contenuto nel fascicolo che l’OVRA teneva su di lei. In un rapporto del 9 dicembre 1935 si legge: «Negli ambienti giornalistici si dice che Curzio Malaparte si sia invaghito della vedova del caro defunto Edoardo Agnelli. Sembra che la relazione proceda, tanto che la signora in questione ha dichiarato di voler sposare Malaparte, allo scopo di ricattare il suocero. Da parte sua, Malaparte va dicendo che non appena saranno sposati, troverà il modo di fare propria la Fiat e di diventare redattore capo della Stampa. Il rapporto è nel giusto dicendo che la coppia aveva intenzione di sposarsi, come confermato più tardi dai documenti legali.
Non era così semplice, però. Se davvero Virginia pensava di utilizzare la minaccia di sposare uno scrittore controverso per estorcere denaro al suocero, allora non pensava davvero di sposarlo e avrebbe lasciato cadere la minaccia una volta ottenuto quello che voleva. Ma questo non avvenne.
Non si sa quando la notizia della love story raggiunse Torino, ma è ragionevole immaginare che Giovanni fosse furioso. Era abituato a imporre la sua volontà nella fabbrica, nel consiglio di amministrazione e nei tribunali. Non aveva intenzione di permettere a Virginia di metterlo in scacco ed era pronto a utilizzare tutte le proprie armi per impedirlo.
Qualunque fosse la sua opinione della polizia di Mussolini, questa non gli impedì di chiedere all’OVRA di seguire la nuora, per raccogliere informazioni compromettenti su di lei e su Malaparte. A seguito della sua richiesta, dall’aprile 1936 vennero stilati rapporti dettagliati sulla coppia. Un privato cittadino poteva trattare gli agenti dell’OVRA come se fossero dei suoi dipendenti? Sì, se di cognome faceva Agnelli.
Giovanni aveva dato istruzione al direttore della Fiat di Roma, Benedetto Perrotti, di scrivere direttamente al capo dell’OVRA Arturo Bocchini, su carta intestata dell’azienda, informandolo dei movimenti di Virginia e chiedendo informazioni. Le date delle lettere risalgono alla fine del 1936 e parlano della «solita persona», chiedendo «il solito servizio».
Era palese che la strategia era infangare la reputazione di Virginia. «La condotta morale di questa signora è stata gravemente corrotta da molto tempo» recita l’inizio di una lunga missiva dell’OVRA datata 15 aprile 1936. Si dedica «a una vita disordinata, convulsiva e immorale. Si dice che sia stata l’amante di numerosi amici di famiglia».
Le spie dell’OVRA si spinsero fino a mettere in discussione la paternità del più giovane degli Agnelli, che non era mai stata in dubbio. Dettaglio forse ancora più importante, gli informatori confermarono che a Forte dei Marmi la relazione era di pubblico dominio da parecchi mesi. Il fascicolo trabocca di rapporti sui movimenti della coppia, sulle gite lungo la costa e le passeggiate sulla spiaggia.
«Penso che a Forte dei Marmi tutti, persino il pescatore di arselle, abbiano visto l’auto Fiat, guidata da donna Virginia in persona, parcheggiata per qualche ora ogni giorno fuori dalla villa Mario Suckert» (dove abitava Malaparte – il cui vero nome era Kurt Suckert) scrisse un poliziotto.
Virginia stava per scoprire a sue spese che le dinastie garantiscono ricchezza e privilegi, ma ai loro membri non è concesso scegliere come vivere la propria vita e con chi. Dagli uomini ci si aspetta che lavorino per la società di famiglia mentre le donne sono tenute a seguire le convenzioni e a partorire l’erede e un suo eventuale sostituto. L’inevitabile resa dei conti tra Virginia e il suocero avvenne durante una riunione di famiglia.
Curzio e Virginia avevano deciso di sposarsi a Pisa il 10 ottobre 1936. Nel corso della riunione, avvenuta il 7 ottobre, Giovanni chiese la custodia dei sette figli di lei, offrendole in cambio cinque milioni e il permesso di sposare Malaparte. Nacque una discussione tra Giovanni da una parte e la madre e il fratello di Virginia dall’altra, ma lui rimase fermo sulle sue posizioni."
Virginia rifiutò la proposta e rimandò le nozze. Pochi giorni dopo il fatidico 10 ottobre, Curzio le scrisse da Forte dei Marmi: «Virginia cara, sono triste, triste per te: ma pieno di coraggio, di fermezza, di decisione e pieno d’amore come non mai. L’ignobile prepotenza, la sudicia violenza di cui siamo vittime ambedue non deve toccarci, e non ci tocca. Ci fa soffrire, ma non diminuisce in nulla né le nostre ragioni, né la purezza dei nostri atti e del nostro cuore. Ti sono vicino come un fratello può essere vicino a una sorella, come un amante può esser vicino alla propria donna. Tu sei più che una sorella, più che un’amante. Sei Virginia, la donna alla quale ho ormai dedicato tutta la mia vita e alla quale sono pronto, se necessario, a sacrificare tutto me stesso, il mio ingegno, il mio sangue, la mia felicità».
Rimandare il matrimonio, tuttavia, non servì a placare Giovanni, che mandò avanti i propri piani per portarle via i nipoti. «Il Senatore è furioso per i bambini e non vuole che lei li veda» riferiscono le spie dell’OVRA il 29 ottobre. «Si racconta di scene violente da parte di lei contro l’anziano suocero.»
I fidanzati continuarono comunque a vedersi e Malaparte cominciò a trasferire alcuni mobili nell’abitazione di Virginia a Roma, Bosco Parrasio. Nella capitale, piena di palazzi disegnati per papi e aristocratici, era una residenza quantomai inusuale.
Appollaiata sul colle del Gianicolo, la villa comprendeva un teatro all’aperto, modellato sul teatro di Epidauro, e nel Settecento aveva ospitato l’accademia dell’Arcadia. Giardini terrazzati, punteggiati da fontane e panchine, scendevano lungo la collina fino a un grande cancello bianco.
La vista sui tetti, le cupole e le antichità di Roma incorniciati dai colli Albani, è una delle più suggestive della città. Virginia vi insediò un salotto frequentato dalla principessa Maria José, da alcuni esponenti dell’aristocrazia romana e da Malaparte. Si conversava in inglese e gli ospiti erano liberi di manifestare avversione nei confronti del regime fascista.
Malaparte, però, stava perdendo la pazienza. Nella speranza di trovare un alleato in Gianni, alla fine di ottobre gli scrisse criticando il nonno. Evidentemente anche Virginia aveva avuto dei ripensamenti, perché scrisse anche a lei dicendole che era «ingiusta» nell’accusarlo di volerla solo sposare e di non amarla. Scrisse anche a Giovanni, dicendogli di non avere paura «né dei Suoi soprusi, né dei Suoi milioni» e accusandolo di aver sparso maligne calunnie su Virginia dopo la morte di Edoardo.
«Se Lei fosse un uomo capace di debolezze sentimentali, la sua violenza nei confronti di Virginia potrebbe essere spiegata, ma non giustificata dal turbamento creato nella sua mente e nel cuore dalla tragica perdita di suo figlio. Sfortunatamente è notorio che lei sia un uomo freddo, arido e privo di scrupoli» scrisse.
Di lì a poco avrebbe scoperto di cosa era capace il padre affranto e il suocero furibondo. Il 18 dicembre un funzionario bussò alla porta del domicilio torinese di Virginia e consegnò al maggiordomo l’ordinanza che le ingiungeva di «lasciare immediatamente la casa»,. Il tribunale per i minorenni aveva conferito a Giovanni la custodia dei figli di Edoardo e Virginia. La motivazione? «La madre dei minori, a breve distanza dalla morte del marito, ha contratto una relazione, che tutt’ora perdura, i cui effetti non possono che essere gravemente pregiudiziali al bene dei minori sotto l’aspetto materiale, morale ed educativo» recitava l’ordinanza.’
A Virginia veniva concesso il permesso di vedere i figli due giorni ogni quindici, in un luogo scelto dal suocero, e le era vietato di allontanarli da Torino senza il consenso di Giovanni. La vista dei nipoti al funerale di Edoardo aveva commosso il vecchio Agnelli fino alle lacrime, ma questo non gli impedì di cominciare con Virginia una guerra per la loro custodia che si sarebbe protratta per tutto il 1937.
Era convinto di poterla spaventare e costringere all’obbedienza, ma si sbagliava. Invece di lasciare la casa come le era stato ordinato, lei chiamò i propri avvocati e poi, furiosa, telefonò all’ufficio di Mussolini per appellarsi all’unico uomo in Italia più potente di suo suocero. Ottenne l’appuntamento.
«Mettetevi il cappotto» disse ai figli. Virginia e i bambini, nervosi e «con la sensazione di essere dei profughi», per usare le parole di Susanna, presero un treno, diretti a Bosco Parrasio, ma non andarono molto lontano. Il convoglio aveva appena lasciato Genova quando si fermò all’improvviso e venne perquisito dalla polizia, che li trovò rapidamente.
«Sarà meglio che scendiate dal treno» disse un poliziotto, indicando i giovani Agnelli. «Lei capisce, signora, che date le circostanze questi bambini, in questo momento, sono stati rapiti». I piccoli vennero caricati in auto e portati in un lussuoso albergo di Genova, dove aspettarono di essere prelevati dal nonno. Nel frattempo Virginia proseguì il viaggio per Roma, diretta all’appuntamento con il duce. Dovette attendere ore, ma alla fine Mussolini la ricevette nel suo ufficio nella Sala del Mappamondo a palazzo Venezia.
Era uno spazio enorme, con alte colonne che incorniciavano le pareti affrescate dal Mantegna. I passi di Virginia risuonarono nella stanza mentre si avvicinava all’angolo dove si trovava la scrivania di Mussolini. A un’estremità, una portafinestra dava sul balcone, teatro dei suoi più famosi discorsi, compresa la proclamazione dell’impero italiano.
Mussolini ascoltò tutto il racconto della donna. Senza lasciarsi intimidire dall’ambiente e dal fatto di trovarsi di fronte al duce, Virginia combatté per i propri diritti di madre. «Non potete ammettere che l’Italia diventi un luogo in cui una donna viene privata dei propri figli solamente perché ha un amante» spiegò.
Forse sperava di toccare un punto sensibile in un uomo il cui appetito sessuale era così vorace che, stando ai racconti, faceva sesso una volta al giorno con qualsiasi donna. Mussolini però non si lasciò convincere. Consigliò a Virginia di fare appello in tribunale e di aspettare il verdetto, La battaglia legale per la custodia dei figli Agnelli era appena cominciata.
Il primo atto di Virginia fu ottenere di trasferire la propria residenza e quella dei figli a Bosco Parrasio. Alcune settimane più tardi, alla vigilia di Natale, scrisse a Malaparte: «Sono completamente spezzata in due, non pensavo che una cosa del genere fosse possibile. Ma ti amo».
Dopo Natale, Giovanni e Virginia arrivarono a una tregua e in primavera lei portò i figli a vivere a Roma, dove continuò a frequentare Malaparte. La pace però fu di breve durata. Nell’aprile del 1937, Gianni scomparve. Apparentemente era stato rapito dal precettore.
Virginia chiamò la centrale della polizia di Roma e si scoprì che Gianni era a Rapallo, affidato alla custodia del precettore, ed era poi stato portato a Torino. Intervennero i carabinieri, che riportarono Gianni a Roma. Virginia denunciò immediatamente il precettore per rapimento di minore.
Il peggio doveva ancora arrivare. Il 18 maggio, un corteo di dieci automobili si fermò davanti a Bosco Parrasio. A bordo c’erano gli avvocati di Agnelli, alcuni suoi impiegati e un funzionario del tribunale minorile di Torino armato di documenti secondo cui tutti i bambini dovevano essere affidati alla custodia di Giovanni. Vennero così caricati su quattro automobili e condotti a Torino. Ma erano decisi a combattere e a dimostrare al nonno quanto amassero la madre.
Erano guidati dalla quindicenne Susanna, particolarmente determinata. Un giorno andò nel cortile di casa Agnelli a Torino e comincio a gridare per far sapere ai vicini che voleva tornare a vivere con la madre. Non smise finché il nonno non la minacciò di spedirla in collegio. Il 21 maggio Virginia presentò una domanda riconvenzionale. La strategia legale era quantomai astuta: i suoi avvocati fecero notare che dal momento che lei risiedeva a Roma, il foro competente era quello di Roma, non quello di Torino.
Inoltrò anche la richiesta alla Corte suprema di Cassazione perché la competenza del caso fosse spostata a Roma, annullando le decisioni precedenti. Il 19 giugno la Cassazione si espresse a favore di Virginia. Il processo si sarebbe svolto a Roma, dove Giovanni non poteva piegare la legge al proprio volere. Dopo la sentenza, Gianni si recò dal nonno e gli disse che i figli volevano stare con la mamma. Il nonno lo ascoltò e osservò che, se la amavano tanto, doveva essere una buona madre.
Virginia aveva vinto. Avrebbe potuto restare con i figli e continuare a frequentare Malaparte. Ciononostante, alla fine di giugno mise fine alla relazione, probabilmente in seguito a un accordo con Giovanni che le avrebbe garantito la sicurezza finanziaria per sé e per i figli. Il tono del telegramma che inviò il 30 giugno 1937 per chiudere la relazione era freddo e formale. «Comunicole avvenuto completo accordo con la mia famiglia / ritornata con i miei figli / assoluto dovere dedicare loro tutto la mia esistenza per mia esclusiva volontà / decisa non pensare più che a loro / auguromi ardentemente possa anche lei non pensare ormai che al suo lavoro.»
Malaparte avrebbe poi scritto due romanzi, considerati dei classici contemporanei, Kaputt e La pelle. Giovanni e Virginia sanarono le loro divergenze nel corso di una cena, durante la quale lei si mostrò felice del risultato raggiunto, ma anche affabile e cortese. Era riuscita a riavere i suoi figli, ma era abbastanza intelligente da non gongolare per la vittoria. «Sei così bella, bella e giovane» le disse lui.
«E i tuoi figli ti vogliono bene. Credo che dovreste andare via tutti dall’Italia, per un po’ di tempo. Vai, Virginia, a cercare una bella casa sulla Costa Azzurra, dove potreste andarvene in vacanza per l’estate. Divertiti e riposa. Anche per i bambini sarà un cambiamento, e si troveranno bene.»
Virginia accettò il suggerimento e affittò una casa a Cap Martin, dove si installò con domestiche, cuochi, bambinaie, autisti e automobili Fiat. Cominciò un viavai di ospiti. Susanna e Gianni – nessuno dei quali aveva la patente - scorrazzavano con le auto di famiglia per la Costa Azzurra. Virginia usciva tutte le sere. Susanna e le sorelle giravano con calzoncini che a malapena coprivano i glutei e capelli così lunghi da oltrepassare l’orlo dei calzoncini. La principessa Jane, venuta in visita, una mattina inorridì trovando i nipoti mezzi svestiti che ciondolavano nei letti bevendo champagne e succo d’ananas.
«Champagne? All’ora del breakfast?» chiese con indignazione. «Perché no? È ottimo!» fu la risposta. A quel punto la principessa si precipitò in camera di Virginia, spalancò la porta e le disse: «Virginia! Devi essere completamente impazzita!».
La relazione tra Virginia e Malaparte costrinse Gianni a crescere in fretta e dolorosamente, sentendosi strattonato tra la madre e il nonno. Benché avesse mediato con Giovanni in favore della madre, molti anni dopo rivelò in un’intervista che in quel periodo si sentiva più vicino a lui che a lei.
Era l’erede dell’impero Fiat e abbastanza perspicace da rendersi conto che, a prescindere dai suoi sentimenti, il suo futuro era con l’azienda e quindi con il nonno. I sentimenti venivano dopo gli affari. Ciononostante, il resto degli anni Trenta passò serenamente per la famiglia Agnelli, che, finalmente unita, si riprese dal dolore e dagli sconvolgimenti che l’avevano scossa. I ragazzi trascorsero un’estate indimenticabile nel Sud della Francia. Il regime di Mussolini avrebbe garantito ancora un paio di anni di stabilità. Fu l’ultimo periodo di pace per la famiglia: la Seconda guerra mondiale avrebbe cambiato tutto.