Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2024  giugno 17 Lunedì calendario

Intervista a Sveva Casati Modignani


In famiglia qualche volta la chiamano Sveva? 
«No, sempre Bice. Ma per la maggior parte dei miei lettori io sono semplicemente “la Sveva”». Un brand da 43 anni, da quando uscì Anna dagli occhi verdi, un esordio letterario siglato da una misteriosa Sveva Casati Modignani. Non la conosceva nessuno, ma l’allora Club del Libro ne richiese centomila copie. Dietro lo pseudonimo si nascondeva la coppia Bice Cairati (che siede qui nel giardino della sua casa di via Padova a Milano) e Nullo Cantaroni (scomparso nel 2004). Bice ha quasi 86 anni, 40 romanzi all’attivo, 12 milioni di copie vendute in tutto il mondo. Un caso «anomalo», come la definì Vittorio Spinazzola, uno dei tanti esperti di letteratura che hanno studiato il fenomeno. In fondo, il feuilleton è un genere nel quale si sono cimentati anche grandi autori del passato. «Ma la smetta, le mie sono ciofeche e basta». 
Lei intreccia storie d’amore con vicende di vita vera. 
«Proprio quello che il mio esercito di lettrici ama. Quasi ogni giorno ricevo una decina di lettere e dei regali: centrotavola fatti a mano, piantine, vasetti decorati. Mi dica lei: quale scrittore viene circondato da tanto affetto? Io so bene di non scrivere dei capolavori letterari, però arrivo a tutti. Ci sono donne che mi confessano: “Mai aperto un libro prima di incontrare lei, da allora non ho smesso più”». 
E lei che cosa risponde? 
«Rispondo: leggete Jane Austen, una che sapeva scrivere davvero. Perché molti di quelli che mi snobbano non sanno che io sono un’attenta e avida lettrice. Mi piace Manzini, adoro Massini e Robecchi, leggo Michela Murgia. Dacia Maraini la seguo da sempre, l’ho anche incontrata in Messico ma non ho avuto il coraggio di rivolgerle la parola». 
Perché? 
«Ma perché ho paura dello snobismo cattivo, quello che ferisce. Una volta al Salone del Libro di Torino Beniamino Placido mi disse “Ah che brava, io non la leggo ma mia madre sì”. Gli risposi che si era comportato come un vero maleducato e me ne andai». 
E Umberto Eco l’ha mai incontrato? 
«Certo, una volta a Tel Aviv, all’ambasciata d’Italia avevano invitato a parlare me e lui. Rimasi incantata dalla sua eloquenza e alla fine gli dissi: “Professore, se lei scrivesse come parla sarebbe perfetto”. Lo so, lo so, sono schietta». 
Certi libri di Eco sono illeggibili? 
«A parte Il nome della rosa, che ho amato molto». 
Bice, lei ha lasciato intendere più volte che tra lei e suo marito, la vera scrittrice fosse lei. 
«È così, perché lui era più portato per la critica, quella che scriveva le storie sono sempre stata io. Eppure per decenni hanno continuato a dire che il vero scrittore era lui, solo perché sono donna».
Lei scrive ormai un romanzo all’anno, alternandone uno più consistente a un altro più esile. Fatica? 
«La fatica sta nella promozione, la scrittura non mi pesa. Alla mia età si può mangiare poco, non si può bere, non si fa più sesso: dove la trovo io un po’ di gioia?». 
In mezz’ora ha fumato due sigarette... 
«Una volta in teatro volli conoscere Andrea Camilleri il quale mi disse: “I suoi libri mi piacciono, qualche volta me li faccio leggere, venga qui accanto a me e fumiamoci una sigaretta in santa pace”».
È vero che il cardinal Ravasi, raffinato biblista, è un suo affezionato lettore?
 
«Sì, una volta eravamo a un raduno di scrittori e mi sentii chiamare. Era lui, che mi disse a voce alta: “Ma che bello il suo romanzo Mister Gregory!”. Poi ci siamo conosciuti e mi ha confidato che alla sera, prima di addormentarsi, non legge un tomo biblico ma prende uno dei miei libri». 
Dunque la leggono anche gli uomini. Uno dei cardini del dibattito letterario, oggi, è che gli uomini non leggono libri scritti da donne. 
«La maggioranza è femminile, lo ammetto, ma ci sono anche tanti uomini, per esempio, il mio amico Maurizio Landini, che quando lo chiamai al telefono per chiedergli consigli sul mondo operaio per una storia a cui stavo lavorando, mi salutò così: “Pronto compagna!”». 
In effetti lei ha qualcosa di sinistro-anarcoide: dalle rivendicazioni delle donne fino a una posizione in favore dei deboli e degli oppressi che affiora nei suoi libri. 
«Se lei sapesse quante donne sono scoppiate a piangere tra le mie braccia e mi hanno confessato che leggendo i miei libri hanno trovato il coraggio di riconoscere un amore sbagliato o un marito violento. Fare letteratura che parla a tutti non sarà un grande atto di pura accademia, ma queste sono le cose che mi rendono felice». 
Quando è stato il momento preciso in cui lei ha avvertito sulla pelle il successo letterario? 
«Guardi, forse quando ho scoperto che in alcune province dell’Europa orientale hanno cominciato a taroccare i miei libri, romanzetti pubblicati artigianalmente con il nome di Sveva Rancati Martignani o cose simili». 
Come le borse! 
«Proprio così, quando cominciano a falsificarti vuol dire che un po’ di successo ti è arrivato. Ma resta un nodo irrisolto: mai sfondato nel mercato in lingua anglosassone». 
E come mai? 
«Secondo il mio editore, che è lo stesso dal 1976 (prima dell’esordio letterario, Cairati e Cantaroni avevano pubblicato dei saggi, ndr.), cioè Sperling, il mercato americano tutela i suoi scrittori di best seller. E così oggi noi, per esempio, possiamo leggere la bravissima Danielle Steel tradotta in italiano, ma non permettono a un’autrice italiana da milioni di copie di sbarcare da loro». 
Un sovranismo letterario? 
«Lo chiami come vuole, io so che prima di morire, uno storico capo della Sperling aveva il progetto di aprire un ufficio a New York e pubblicare direttamente lì i miei libri». 
Un po’ quello che ha fatto la casa editrice e/o, decretando così il successo di Elena Ferrante negli Stati Uniti. 
«Ma io scrivo robetta». 
Lei ha più volte rivendicato il diritto all’infedeltà per le donne, eppure lei è fedele allo stesso editore da quasi cinquant’anni. 
«Tiziano Barbieri, un tempo anima della Sperling, per me è stato come un fratello, così come quelli che sono venuti dopo di lui, da Baroffio a Peccatori. In tanti, anzi direi quasi tutti gli editori italiani, hanno cercato di conquistarmi, ma sono stata irremovibile. Devo però dire che quando conobbi Mario Andreose della Nave di Teseo, fu difficile non cedere alla sua eleganza e ai suoi modi così raffinati». 
Non può essere solo una questione di soldi. 
«I soldi c’entrano poco. Un editore mi deve coccolare». 
Il ricordo più bello? 
«Stavo facendo una presentazione a Brescia e, d’un tratto, irruppe in libreria una suorina con due enormi sporte in mano. Venne da me e mi disse: “Ho poco tempo: qui dentro ci sono tutti i suoi libri e l’elenco delle donne a cui dedicarli. Sono per le mie malate del reparto Oncologia. Poche cose le fanno stare bene come i suoi romanzi”». 
Ci sarà mai «un ultimo libro» nella storia umana? 
«Di certo non fino a quando io sarò in grado di scrivere».