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 2024  giugno 17 Lunedì calendario

I tic che fanno letteratura


Ogni volta che mi sono trovato a dover rifare la carta d’identità c’è sempre stato un intoppo. L’impiegato comunale mi domanda: «Professione?». «Scrittore». «Intendevo il lavoro». «Scrittore, devo portarle i miei libri, la mia dichiarazione dei redditi?». Alla fine mi sono sempre arreso: «Senta, non metta nulla». Sarà per questo che oggi sono tutti qualcosa «e scrittori». Scrittore è un ornamento, basta pubblichino qualche libro e diventano tutti «e scrittore».
Così ho scoperto, leggendo la ristampa, dopo trent’anni, di Scrivere è un tic I metodi degli scrittori di Francesco Piccolo (edito da Einaudi, pagg. 128, euro 14), che è successo spesso agli altri scrittori. A Luis Sepúlveda capitava sempre alla dogana: «Ogni volta che dovevo mendicare un visto mi chiedeva la professione. Quando gli rispondevo: Scrittore, ripeteva: Le ho chiesto la professione». Scrivere è visto come un hobby perché la maggior parte delle persone scrive (anche se raramente legge) i famosi «romanzi del cassetto», la maggior parte dei quali resteranno meritatamente nei cassetti (non fatevi illusioni paragonandovi a Kafka o Morselli, sono eccezioni, voi siete la regola). Oppure pubblica un libro (prima o poi ci riescono tutti) per poter aggiungere «e scrittore».
Tra gli aneddoti del saggio di Piccolo (definito dall’autore una passeggiata-pettegolezzo nella vita degli scrittori, e tant’è, una piacevole passeggiata), c’è poi l’importanza della disciplina, o meglio dell’autodisciplina, per renderlo «un mestiere» (sebbene nessuno te lo riconosca). In genere uno scrittore è una persona con un talento per la scrittura che avrebbe potuto fare altro, non sapendo fare niente altro. «Ho sempre desiderato fare lo scrittore, fin da quando ero bambino, ma soltanto sui diciannove anni mi resi conto che non avrei potuto fare altro, che non avevo qualità per fare altro; fu a quell’età che cominciai a scrivere seriamente».
Non esiste un metodo di autodisciplina, ciascuno ne ha uno, geni della grande letteratura o della narrativa commerciale che siano. Marcel Proust soffriva d’asma e per scrivere la Recherche ha scritto di notte, ogni giorno, per quasi vent’anni, in una stanza piena di polvere e rivestita di sughero per poter dormire di giorno. Bisogna ricordare che Proust non aveva bisogno di farne un mestiere per vivere, essendo ricco di famiglia, mentre Balzac, che lavorava per ricevere tot a pagina, lasciava l’alcol, chiudeva le tende, e si imbottiva di caffè per giorni, senza staccare mai.
Mark Twain teneva i conti di ogni parola scritta durante una giornata: «sui suoi manoscritti si possono vedere tanti numerini a matita ogni tante pagine». A proposito di matite, Simenon le voleva sempre belle nuove e appuntite, e ne teneva un barattolo sulla scrivania. A appuntirle ci pensava la moglie (perché dietro ogni grande uomo c’è sempre una grande donna, questo lo dico io, non prendetevela con Piccolo). Un tempo tutti scrivevano a mano, poi a macchina, infine quasi tutti sono passati al computer. Dacia Maraini no, vede nel computer un pericolo (dovrebbe essere il contrario, anche questo lo dico io, non Piccolo). Erica Jong, tuttavia, scrisse a Henry Miller: «La macchina da scrivere è masturbarsi la penna è scop...» (meglio la macchina da scrivere, avrei risposto). Umberto Eco, che invece era avanti, sosteneva che «il computer è masturbatorio, io ne sono così affascinato che mi succede di scrivere per il puro piacere di utilizzarlo».
Henry Miller fino alle undici non voleva essere disturbato, perché appunto scriveva, e sulla porta aveva apposto un cartello: «Se proprio devi bussare, bussa dopo le undici di mattina». Io ormai sono molto peggio, agli autoarresti domiciliari sto bene, mia mamma si lamenta di come sono diventato, che dovrei fare sport, respirare aria (respiro lo stesso anche a casa), ma io ormai le rispondo «Mamma, su Twitter mi segue Tom Cruise, non so se mi spiego», e sul mio zerbino c’è scritto: «If you are pizza, Amazon or Freddie Mercury, I’m home».