La Stampa, 17 giugno 2024
Intervista a Claudio Santamaria
A un certo punto Claudio Santamaria si interrompe, vuole leggere una frase che lo ha colpito molto: «Io non ho mai visto una classe così irrimediabilmente corrotta dall’egoismo... per essa nulla esiste al mondo all’infuori dell’amore per il denaro, non conosce beatitudine alcuna all’infuori del facile guadagno». La citazione è di Engels, datata 1845, ma in questa sera d’estate in Marocco, dove diretto da Alessandro Tonda sta girando Il Nibbio, film dedicato al dirigente del Sismi Nicola Calipari che 20 anni fa sacrificò la sua vita per salvare quella della giornalista del Manifesto Giuliana Sgrena, Il quasi cinquantenne Santamaria (li compirà a luglio) ha avuto voglia di ricordarla: «Mi auguro che i nostri politici si rendano conto che è inutile farsi la guerra. Basta con le faziosità. Pensassero a chi non arriva a fine mese, invece di tagliare fondi per le scuole, per gli asili, per gli ospedali. Vorrei una classe politica che torni a battersi per queste cose, invece di limitarsi a parlarne solo in campagna elettorale».
Che cosa la preoccupa di più?
«Si è appena svolto il G7, ho visto le condizioni in cui sono state tenute le forze dell’ordine e sono rimasto sconvolto, alloggi fatiscenti, senza aria condizionata, senza bagni adeguati. Non c’è rispetto, non c’è tutela della dignità. Il mondo sta andando avanti con un divario sempre più netto tra chi si arricchisce e chi si impoverisce, il gap finirà per distruggere le classi medie. Mi auguro che vengano garantiti i diritti dei cittadini, quelli sanciti dalla nostra Costituzione».
Come vede le nuove generazioni?
«Viviamo in un mondo a velocità massima. C’è una gran preoccupazione legata all’immagine rimandata dai social, al non piacersi per come si è. I ragazzi sono bombardati, non solo dalla pubblicità, ma da rappresentazioni di loro coetanei che si mostrano in un modo truccato, lontano dalla realtà, sono spinti a inseguire il sogno della fama e del denaro, non capiscono che il lavoro è fatica, che, per realizzare i loro sogni, devono compiere un percorso. Mi sembra che oggi vadano molto i fenomeni, quelli che diventano celebri in un attimo, è una tendenza che c’è sempre stata, ma ora è aumentata. Non è un caso che poi si vada dallo psicologo a 15 anni».
Da ragazzo, qual era il suo sogno?
«Volevo fare l’architetto, a 7-8 anni disegnavo sempre case, adoravo il Lego, i magneti, le costruzioni, ho fatto il liceo artistico e nelle materie scientifiche prendevo sempre il massimo dei voti. Avevo anche una propensione per il mestiere che faccio, all’Università mi sono iscritto a Lettere con indirizzo Spettacolo, ho seguito un corso di recitazione».
Quando ha capito che voleva essere attore?
«Ci ho messo anni. A lungo ho avuto alti e bassi, avevo una specie di amore e odio verso questo lavoro, l’ho considerato inutile, mi sembrava che essere portato sul set a dire parole scritte da altri fosse una cosa che soffocasse la creatività, quella parte di me che invece scalpitava per venire fuori».
Sta per uscire (l’11 luglio) il film Non riattaccare di Manfredi Lucibello. Una prova di sola voce, in cui interpreta un uomo in profonda crisi. Che cosa le ha fatto pensare quell’esperienza?
«La storia del film è un po’ la rappresentazione simbolica di un periodo terribile che abbiamo vissuto tutti, quello del Covid. Allora la nostra comunicazione era basata per forza sul non vedersi dal vero, ci siamo affidati alle tecnologie per stare vicini, è stato un momento di solitudine mondiale».
La famiglia per lei è molto importante. Perché?
«L’ho capito quando ho incontrato Francesca, mia moglie. Sono molto casalingo, ho bisogno del rifugio caldo, amorevole dove tornare, con lei ho capito quanto è importante la condivisione. Siamo esseri sociali, fare le cose per se stessi è bello, ma condividerle lo è di più».
Sua moglie è impegnata su molti fronti, abituata a prendere posizioni. Non tutti gli uomini amano questo tipo di compagne. Lei sì, perché?
«E dove sarebbe il divertimento, se non fosse così? Ho sempre cercato un rapporto paritario, basato sullo scambio di vedute, sul pensarla in modo differente. Che senso ha stare con una donna incantata che ti dice solo di sì? Per me stare insieme significa crescita, comprensione. Con Francesca ho capito un sacco di cose, molte di più di quelle che avevo capito stando da solo. E poi ci troviamo sulle cose di fondo, l’educazione dei figli, la bontà d’animo. Francesca porta avanti le sue battaglie e le sue idee con grande passione, soffre per le ingiustizie del mondo, e questo per me è un motivo d’amore importante».
Come vive la popolarità, ci sono momenti in cui le pesa?
«All’inizio ero molto spiazzato, dopo L’ultimo bacio la gente per strada mi riconosceva e mi chiamava Paolo, come il personaggio del film. Poi ho imparato a fare i conti con l’essere famosi, mi sono detto: hai voluto la bicicletta? E allora pedala. Questo è un mestiere di relazioni, non puoi farlo senza gli altri, poi certo succede che in certi casi l’invadenza dia fastidio».
Per esempio?
«Ci sono quelli che ti arrivano addosso e ti chiedono se possono fare un selfie quando lo hanno già fatto, poi si fermano a valutare come è venuto e senza nemmeno guardarti in faccia ti chiedono “scusa, aspetta un attimo, come ti chiami? Quella è maleducazione e basta».
Che cosa le piace leggere?
«Vado a periodi, come tutti. Leggo romanzi. C’è stata una fase in cui ero patito di Valerio Evangelisti, dei racconti cyber-punk. E poi mi piacciono i classici, Dostoevskij prima di tutto».
C’è qualcosa che vorrebbe fare e non ha ancora fatto?
«La regia. È il mio prossimo obiettivo, ci sto lavorando. Penso che abbia molto in comune con la mia passione per l’architettura. L’ho capito quando ho girato il mio corto, dirigere è costruire corpi dentro uno spazio, in fondo è architettura in movimento». —