Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2024  giugno 17 Lunedì calendario

Quando De Michelis disse "a 40 anni sarò ministro" e agli Esteri fu il primo che conosceva l’inglese

C’erano due personaggi nella Venezia politica degli anni ’60: il “Giani” e il “Toni": simili e allo stesso tempo opposti. Colti, accademici, conversatori instancabili, coetanei. Il primo un giorno disse: «A quarant’anni sarò ministro». Il secondo cominciò a teorizzare la lotta armata con i suoi studenti all’Università, guadagnandosi il ruolo di “cattivo maestro”, figura centrale di una delle più famose inchieste sul terrorismo, condotta dal giudice Calogero, e finendo i suoi giorni in una lunghissima latitanza a Parigi. Il primo azzeccò perfettamente la previsione che lo riguardava. Il secondo, grazie a Pannella, che lo candidò per farlo uscire di galera, riuscì anche a fare un’apparizione alla Camera il primo giorno della legislatura 1983-‘87, per poi sparire nel suo esilio, in cui continuò a scrivere, a elaborare teorie e a frequentare gli altri terroristi che nella capitale francese avevano trovato asilo. Anche il primo, un giorno, era già ministro, si sentì chiamare in un boulevard da un suo vecchio amico latitante, Oreste Scalzone, e pensò bene di salutarlo calorosamente e fermarsi con lui a chiacchierare. Un giornalista di Famiglia Cristiana, David Sassoli, che avrebbe fatto molta strada, diventando trent’anni dopo Presidente dell’Europarlamento, lo vide e descrisse quell’incontro sul suo giornale. Ne nacque una mezza crisi di governo, rientrata solo perché il ministro scrisse una lettera al presidente Pertini in cui chiedeva scusa della sua leggerezza.
"Giani”, in Veneto si dice così, era Gianni De Michelis. “Toni”, Toni Negri. E alla figura del socialista scomparso cinque anni fa e definito già nel titolo L’irregolare è dedicato il libro di Paolo Franchi (Marsilio editore), una biografia molto poco convenzionale che ricostruisce la vita tempestosa del “Giani”. Travolto, come molti altri, da Tangentopoli, e ingiustamente rimasto nella storia solo per la gioia di vivere, i capelli lunghi, la passione per il ballo e le discoteche, a cui a un certo punto aveva dedicato anche un libro che recensiva le migliori in Italia.
La storia comincia con la dura gavetta politica di De Michelis durata vent’anni tra i socialisti della sua città e sorretta da una genialità e una curiosità per il futuro che si manifestano subito. Poi, il colpo di fortuna di trovarsi al posto giusto al momento giusto: il Midas, dove nel 1976 una generazione di dirigenti politici nati nella goliardia universitaria dell’Unuri (i “parlamentini” che saranno spazzati via dall’avvento dell’assemblearismo del ‘68) organizzano una specie di “golpe” contro la vecchia guardia del Psi, insediando alla guida di un partito agonizzante Bettino Craxi, con lo slogan: «Primum vivere!».
Scorrono nel racconto di Franchi le vicende della fine degli anni ’70 e di tutto il decennio socialista degli ’80: il “caso Moro”, il ritorno al governo dei socialisti con Cossiga e con una Dc necessitata a trovare una maggioranza solida per votare l’installazione dei missili americani “Cruise” a Comiso; l’arrivo di Craxi a Palazzo Chigi, lo scontro con Berlinguer che porterà alla morte improvvisa del leader comunista e al referendum sul taglio della scala mobile voluto dal Pci in sua memoria. Ma mentre Craxi è una sorta di “totus politicus” che alterna strappi a frenate improvvise, De Michelis, che sarà insieme il rivale che diventerà suo alleato e poi di nuovo competitore interno nel Psi, è uno che studia, approfondisce, riflette; si circonda di collaboratori, come lui stesso, che vengono dall’università e hanno forti relazioni internazionali; parla inglese e sarà per questo il primo ministro degli Esteri a non aver bisogno dell’interprete. Mette giù progetti su progetti irrealizzabili come quello di modernizzare le Partecipazioni statali (Andreotti diceva che «nei manicomi esistono due tipi di pazzi: quelli che si credono Napoleone e quelli che vogliono riformare le Ferrovie»). Scopre, in anticipo di almeno vent’anni, la Cina. Approfondendo l’esame delle tendenze demografiche, prevede che l’immigrazione diventerà uno dei problemi più drammatici degli anni 2000. Tal che, alla fine della lettura, nelle ultime malinconiche pagine del libro, traspare il rimpianto che anche un uomo così sia finito nel calderone delle inchieste giudiziarie che hanno azzerato all’inizio degli anni ’90 l’intera classe dirigente della Prima Repubblica. —