il Fatto Quotidiano, 17 giugno 2024
L’algoritmo perdona-star
Va bene la nostalgia per la Dolce vita romana, ma qualcuno dica a Gerard Depardieu che l’Harry’s Bar di via Veneto non è il pub di Fight Club. Troppo tardi: “Arriva e mi dà tre pugni” ha denunciato il quasi ottuagenario Re dei paparazzi, Rino Barillari, con la fronte insanguinata. Qualcuno ci ha fatto pure un film. No, non una pellicola sull’attore francese che allunga le mani (in tutti i sensi), ci mancherebbe. Ma sul cinema dietro la telecamera: la realtà più cruda e viscida, dunque più drammaticamente succulenta.
In altre parole, è nato un nuovo genere: l’arte del dietro le quinte dello showbitz, trasmutato ormai da gossip a cassonetto dell’umido. Sotto la lente d’ingrandimento è finita la controversa “scena del burro” in Ultimo tango a Parigi, la sequenza non prevista nella sceneggiatura di Bertolucci dove la giovanissima Maria Schneider viene violentata da Marlon Brando. Un’esperienza traumatica, a detta della cugina dell’attrice che ha raccolto le memorie in un libro che ora è diventato Maria, biopic di denuncia della regista francese Jessica Palud presentato in anteprima a Cannes.
Burro e scivolate a parte, nemmeno i libri sul tema fanno la raccolta differenziata. La scrittrice statunitense Claire Dederer, nel suo nuovo saggio Mostri. Distinguere o non distinguere le vite dalle opere: il tormento dei fan (edito da Altrecose), fa una scorpacciata da indigestione: “Roman Polanski, Woody Allen, Bill Cosby, William Burroughs, Richard Wagner, Sid Vicious, V.S. Naipaul, John Galliano, Norman Mailer, Ezra Pound, Caravaggio, Floyd Mayweather, ma se ci si mette a elencare gli sportivi non si finisce più. E le donne? La lista si fa subito molto più incerta: Anne Sexton? Joan Crawford? Sylvia Plath? Conta anche l’autolesionismo? Ok, torniamo agli uomini”.
Giù di cattivi maestri e altre storie di ordinario dilemma morale. Leggerlo è un po’ come scorrere il menù di un ristorante stellato sapendo che lo chef si scaccola. Il sillogismo hollywoodiano è più o meno questo: “Polanski ha diretto Chinatown, uno dei più grandi film della storia del cinema. Polanski ha drogato e sodomizzato la tredicenne Samantha Gailey. I fatti sono questi, inconciliabili”.
C’è di peggio? Sotto a chi tocca: Woody Allen. I simpatici occhialoni neri e lo sguardo da pesce lesso non lo salveranno: “Oggi il dibattito infuria sulle accuse mosse da Dylan Farrow, ma a scardinare e ricostruire il mio rapporto con i film di Allen fu la storia di Soon-Yi. Il fatto che se la fosse scopata mi fece sentire tradita nell’intimo”. Che poi, sbotta l’autrice: “Per andare a letto con la figlia della tua compagna devi essere uno schifoso di quelli speciali”. Eppure il suo cinema “continuava ad affascinarmi. Io e Annie è un jeu d’esprit, un passo alla Fred Astaire, un palloncino gonfio di elio che tira la cordicella”.
Dederer ne fa un soliloquio ad alta voce. Una rilettura ossessiva e compulsiva di film, libri e altre opere senza il dente avvelenato del politicamente corretto. È un saggio in cui i nuovi mostri, che alla fine sono quelli vecchi, si scontrano con il pubblico del nuovo millennio. Il millennio dove il dolore personale diventa politico, e la tristezza privata indignazione collettiva.
L’autrice prova dunque a fare un’operazione a metà strada fra etica e aritmetica. Ipotizza la creazione di una calcolatrice che soppesi il genio e il prodotto della sua genialità, che poi emette un verdetto: “puoi/non puoi fruire del suo lavoro”. Fattibile? Piuttosto ridicolo. Meglio essere liberi di amare chi si vuole. E tenersi le suole appiccicose. Così almeno non si scivola sul burro della cancel culture, conclude Dederer, che dell’arte è la peggior nemica.