il Giornale, 16 giugno 2024
Il falso mito dell’accoglienza
Questa è da tempo la mia esperienza a Milano. La linea del cielo è bellissima. Guglie e torri. Ma al suolo la città è ridotta a un bivacco di poveracci, tra i quali prevalgono quelli di pelle nereggiante. Li guardi, e nascono sentimenti contraddittori: pietà, disagio, paura quando in due o tre si spostano dalla loro postazione e ciondolano verso di te. Non siamo bestie, la sofferenza delle creature umane, qualunque ne sia stata la causa, genera compassione, desiderio di soccorrere. Ma, confesso, mi emozionano di più le signore, specie anziane, che stringono la borsetta al petto: nel far i quattro passi dal supermercato al loro portoncino, non si sentono a casa loro. Si trovano in mezzo a una invasione.
Che ci fanno qui? Perché sono qui? Sono immigrati? No, sono invasori. Nelle loro teste forse sono partiti per trovare un posto migliore, credono di aver meritato tutto questo a causa di viaggi sul filo del rischio mortale, trascinandovi neonati e donne incinte. Non hanno chiesto il permesso, hanno violato confini, sventolano diritti d’asilo inesistenti. In realtà nel 97 per cento dei casi sono invasori. Non è scritto in nessun codice morale, neanche in quello evangelico (parola di Biffi e Maggiolini, ahimè defunti), il diritto all’invasione. Da sempre, se un popolo per i suoi motivi che qui non indago vuole prendersi la terra di un altro, costui la difende con le unghie e con i denti. Non è detto che si riesca a respingere l’invasore, ma ci si prova. Sono millenni che va così. Il cristianesimo non è vero che modificò questa legge naturale, semmai cercò riuscendoci di convertire i barbari. Con i saraceni fu poi il Papa a organizzare assieme a veneziani, polacchi e austriaci (i francesi rifiutarono, ma guarda un po’) la resistenza, come documenta la battaglia di Lepanto che fermò per qualche secolo la conquista ottomana di Roma ed Europa tutta (1571). Ci stanno riprovando. Noi in compenso alla nuova ondata islamica abbiamo aperto le braccia, sentendoci in colpa per aver creato benessere lavorando. L’esito è il disastro sotto i nostri occhi. Ci si era messo Matteo Salvini, da ministro dell’Interno, a impedire approdi di navi tedesche, spagnole e norvegesi, usate come cavalli di Troia per invaderci. La nostra giustizia, invece di giudicare i criminali che organizzano queste tradotte infernali e le quinte colonne occidentali che le perfezionano, tiene tuttora Salvini sotto processo. Uno scandalo cui ci siamo assuefatti, mentre sarebbe ora di ribellarci raddrizzando un po’ il mondo.
In nome di un umanitarismo fasullo, nutrito di emozioni manipolate ad arte, riusciamo, pur di far del bene, a far due danni: contro quelli che arrivano, (...)
(...) consegnandoli a una esistenza da barboni, e spingendoli, in assenza di casa e lavoro, a intrupparsi in bande di delinquenti; e ai più fragili tra noialtri, che consumiamo risorse per rimediare all’indigenza degli abusivi quando incombe quella dei nostri connazionali. Non solo: lasciandoli accampare qui in questa maniera idiota facciamo del male anche all’Africa. I 900mila che è il numero ufficiale di quanti hanno attraversato il mare per insediarsi qui hanno rubato alla loro patria le energie migliori, mettendo i risparmi delle loro famiglie (dieci-quindicimila dollari cadauno) nelle mani di bande dei negrieri, che tengono in pugno gli Stati coinvolti dal traffico.
La ricetta è semplice. Sono ovvio, lo so. Portare indietro i barconi, senza violenza, con i dovuti modi, e il vitto necessario per il rientro. E sigillare il porto da cui s’è mossa la sortita invasiva. Tutto questo – lo so – è vietato. Regole internazionali? Le si cambi. Il rapporto costi benefici – non solo per noi ma per tutti pende tragicamente, se le cose procedono come adesso, dalla parte dei costi. Si dice: siamo in pieno inverno demografico, le fabbriche hanno bisogno di manodopera e pure i campi. Ma la migrazione è altra cosa dall’invasione. La migrazione è la risposta a una domanda di manodopera, come capitò agli italiani nelle Americhe e in Australia. Si trovi il modo di ridar corso a questo filo di razionalità.
Il G7, nel suo documento finale di 18.806 parole, ne dedica 1.160 all’immigrazione. È passata per fortuna la linea Meloni. 1) Lotta ai trafficanti. 2) Accordo e sostegno ai Paesi che collaborano. Se le parole fossero potenti come dicono saremmo a cavallo. Auguri a Giorgia e a noi. Non ricordo però un solo testo partorito dal summit dei grandi d’Occidente che si sia poi tradotto nella soluzione dei corrispondenti problemi. Manca un punto: se questi, come la Libia, o il Niger, fingono di dir di sì, e poi capeggiano le carovane dell’invasione, il G7 che fa? Un altro documento? Come si vede, non ho soluzioni. Mi limito a constatare.