Undici, 16 giugno 2024
Storia della maglia azzurra
La prima volta della Nazionale in maglia azzurra fu una Befana assai povera per i bambini. Era il 6 gennaio 1911. Pochi regali, pochissime lire nelle famiglie italiane. Il Paese stentava, con un analfabetismo del 60 per cento tra le donne e del 40 per cento fra gli uomini. Anche la principale figura politica dell’epoca, Giovanni Giolitti, presidente del Consiglio per tre volte e una quarta in primavera, poco poteva. A breve sarebbe arrivata la guerra a portarci via 650mila connazionali. La Nazionale era in realtà sorta una domenica di otto mesi prima, 15 maggio 1910, all’Arena civica di Milano, in un match vinto 6-2 contro la Francia. Era stato un percorso lungo, non privo di inciampi, cominciato in coincidenza con il primo campionato disputato in un unico pomeriggio torinese nel 1898. Quello stesso anno, e sempre a Torino, era sorta la Fif, la Federazione italiana del football, destinata a trasformarsi in Federazione italiana giuoco calcio (Figc) nel 1909.
L’Italia era scesa in campo dopo una selezione tra “probabili” e “possibili”, due squadre e ventidue elementi dai quali era scaturita la prima Nazionale, di bianco vestita perché era l’indumento più facile da reperire per i calciatori. Il capitano del debutto era stato il sampdoriano Calì, in difesa aveva svettato l’interista Fossati, tra i futuri morti sul Carso. Alla prima gara, bagnata da una doppietta di Lana, era seguita una tragicomica trasferta in Ungheria, fatta sulla terza classe del treno. L’Italia del pallone era evidentemente povera come il resto del Paese e quel viaggio era stato affrontato con poche vivande in valigia. Il ritorno contro l’Ungheria, fissato per il gennaio successivo, fu dunque l’occasione per passare all’azzurro. Il tributo era tutto per casa Savoia, un omaggio che si sarebbe esteso rapidamente alle altre discipline sportive. Fu presa come tonalità di azzurro quella dello scudo sabaudo presente sul pavimento della galleria Vittorio Emanuele II a Milano. Quel colore era anche un richiamo al mare, al cielo, all’Italia. Con quella casacca, rigorosamente di lana e ornata con lo scudo reale rosso e bianco, la Nazionale partecipò alle prime competizioni internazionali: Olimpiadi di Stoccolma 1912, Anversa 1920, Parigi 1924 e Amsterdam 1928, importante perché arrivò il primo alloro sotto forma di medaglia di bronzo.
Da un anno, per esattezza dalla sfida con la Spagna del 29 maggio 1927, la Nazionale aveva aggiunto il fascio littorio sulle divise. Lo aveva imposto Leandro Arpinati, presidente della Federazione, già podestà di Bologna, prossimo sottosegretario agli Interni del governo Mussolini. Romagnolo verace, era cresciuto assieme al capo del fascismo, rimanendovi legato fino alla sua caduta in disgrazia dopo il dissidio con Achille Starace. Arpinati fece molto per il movimento calcistico italiano, a partire dalla Carta di Viareggio, l’atto che nel 1926 aveva chiuso le frontiere agli stranieri e aperto agli oriundi. Ma la svolta principale la impresse con l’incarico affidato al Commissario unico Vittorio Pozzo. Primo dicembre 1929, Italia-Portogallo 6-1. Pozzo era già stato alla guida della Nazionale, ed era stato anche segretario della Federazione. Per qualche mese, casa sua era diventata la sede della neonata Figc. Ma fu negli anni ’30 che la sua cultura cosmopolita e la sua profonda conoscenza del metodo, l’impostazione di gioco dell’epoca, lo portarono a realizzare il ciclo più vincente nella storia azzurra.
Si iniziò subito, nel 1930, con la Coppa internazionale, l’attuale Europeo, bissato nel 1935. Furono tuttavia i due Mondiali del 1934 e del 1938 a dare la gloria a un gruppo straordinario di calciatori. C’era Giuseppe Meazza, detto il Balilla, c’era Giovannino Ferrari, il centrocampista più continuo di ogni tempo, c’erano Orsi e Schiavio nel 1934, nel Mondiale conquistato in casa, e c’erano Piola e Colaussi nel 1938, in Francia. In mezzo, la vittoria alle Olimpiadi di Berlino nel 1936, ancora oggi unica medaglia d’oro della nostra storia calcistica. Quella squadra, con Primo Carnera e con l’ostacolista Ondina Valla, fu un vanto del fascismo. Proprio fra le Olimpiadi tedesche e il Mondiale in Francia, la Nazionale di Pozzo indossò per cinque volte la maglia nera. L’ultima il 12 giugno 1938 a Parigi, nella sfida contro i padroni di casa. Quel giorno, come appare acclarato, la squadra scese in divisa nera per volere diretto di Mussolini, risentito per i fischi che i nostri atleti avevano ricevuto nella gara precedente contro la Norvegia, in particolare da parte degli esuli antifascisti riparati oltralpe.
Prima dello scoppio della Seconda guerra mondiale, la Nazionale giocò contro Croazia e Spagna, alleate politiche ma non militari. Finirono entrambe con una vittoria per 4-0 e fu il congedo dai campi per più di tre anni. In quelle ultime due gare, prima della sosta forzata, avevano debuttato due giovani, Ezio Loik e Valentino Mazzola, architravi del centrocampo su cui si andava edificando il leggendario Grande Torino. Dai giocatori del Toro ripartì la storia azzurra a guerra finita. Nel primo undici radunato da Pozzo fra le macerie del Paese, ben sette undicesimi indossavano il granata. La partita della rinascita fu disputata nel 1945 a Zurigo contro la Svizzera, dopo la rinuncia all’ultimo momento da parte della Spagna. Fu quello il primo atto diplomatico, definiamolo così, di una nazione vinta e per questo esclusa da ogni contesto internazionale. Mentre De Gasperi, a Parigi, si appellava alla cortesia dei Paesi vincitori, i nostri calciatori ruppero l’isolazionismo, pareggiando 4-4 quel match. Grande merito ebbe Ottorino Barassi, dirigente della Federcalcio, l’uomo che durante la Seconda guerra mondiale aveva salvato dai nazisti la Coppa Rimet nascondendola in una scatola di scarpe sotto al letto. La curiosità maggiore di quella partita fu ancora una volta la maglia: non c’era più il fascio littorio, caduto ovviamente il 25 aprile precedente, ma rimaneva lo scudo sabaudo. Sparirà nella partita successiva, il primo dicembre 1946 contro l’Austria (3-2), essendo oramai l’Italia una Repubblica dal 2 giugno.
La Nazionale del secondo dopoguerra fu imperniata totalmente sul Grande Torino. Il record fu stabilito nella partita dell’11 maggio 1947 contro l’Ungheria, vinto 3-2 dalla Nazionale italiana. Quel giorno, escluso il portiere juventino Sentimenti, il resto dell’undici era tutto granata. Un dominio mai più verificatosi nella storia. Purtroppo, appena due anni dopo, quella meravigliosa squadra – la più grande che il calcio italiano abbia mai conosciuto – morì a Superga. Una tragedia che si riverberò sulla Nazionale. Se per molti anni non riuscimmo a vincere nulla, fu per quella perdita incolmabile di talento e forza. Pochi sanno che per un intero anno la Nazionale giocò col lutto al braccio, un legame talmente solido che quel pezzo di stoffa nera fu addirittura cucito sulle casacche.
L’altro riflesso fu nel Mondiale 1950. La paura degli aerei, in particolare quella mostrata dal ct Aldo Bardelli, un giornalista sportivo come Pozzo, spinse la nostra spedizione a viaggiare verso il Brasile in nave. Occorsero 15 giorni, i palloni finirono nell’Oceano dopo meno di una settimana e tutto il Mondiale si trasformò in un fiasco. Nel 1954, in Svizzera, fu un’altra debacle. Fuori al primo turno. E ancora peggio andò quattro anni dopo, esclusi dal Mondiale in Svezia, quello del giovanissimo Pelé, dopo lo spareggio perso contro l’Irlanda del Nord a Belfast. Era la stagione degli oriundi, da Sivori a Ghiggia, da Montuori a Schiaffino, la cui italianità (molto dubbia) fu sancita da una legge voluta da un giovane politico: Giulio Andreotti. La stagione degli oriundi non portò nulla di buono e anche nel Mondiale 1962 uscimmo al primo giro, accompagnati dal livore dei tifosi locali per quanto avevano scritto alcuni inviati italiani in relazione al degrado morale del Cile. La svolta, con il ritorno dei soli italiani tra le convocazioni, avvenne con Edmondo Fabbri. Allenatore moderno, dinamico, era stato il demiurgo del Mantova dei miracoli, salito dalla Serie D alla Serie A. Mondino, così come lo chiamavano tutti, fu inchiodato dalla fatale sconfitta contro la Corea del Nord nel Mondiale 1966. Un’onta gigantesca, mai risanata, che divenne sinonimo di disfatta per gli italiani e che all’allenatore romagnolo costò la fuga in un convento dell’Appennino per non farsi trovare.
Da quella pagina, triste e buia, sarebbe nata però una squadra fortissima. Le basi per i trionfi che vanno dall’Europeo 1968 al Mondiale del 1982, passando in mezzo allo storico Messico ’70 e alla splendida Nazionale quarta al Mondiale 1978, furono messe da Artemio Franchi, salito alla guida del calcio italiano all’indomani del crollo coreano. Resta il più grande dirigente di ogni tempo, peraltro vicepresidente Fifa e presidente Uefa negli Anni ’70. Per far rinascere la Nazionale, si affidò a Ferruccio Valcareggi, che contava su campioni come Rivera e Mazzola, Boninsegna e Riva. Quella Nazionale ha allevato un’intera generazione di tifosi, rapiti dalle maglie azzurre o da quelle – splendide – bianche con barra orizzontale azzurra. Valcareggi lasciò la guida a Enzo Bearzot dopo Germania 1974, con un piccolo interregno di Fulvio Bernardini, e al Vecio spettò di riportare l’Italia sul tetto del mondo 44 anni dopo l’ultimo trionfo. La pipa di Pertini, l’urlo di Tardelli, l’aereo presidenziale, l’urlo di Martellini in tv: divenne il successo di un’Italia che chiudeva quell’11 luglio i terribili Anni di piombo e si apriva all’edonismo degli anni ’80.
Il resto è storia contemporanea, attuale. Le notti magiche di Italia ’90 e il Mondiale in America con Baggio protagonista. A un soffio, pardon un rigore, dal primo gradino. Sino alla notte meravigliosa di Berlino, stavolta con il rigore di Grosso a nostro favore. E di nuovo immagini indelebili: il sigaro di Lippi, il taglio di capelli di Oddo, la gioia di Gattuso e le mani al cielo di Cannavaro. Anno 2006, campioni del mondo per la quarta volta. Poi un lungo e inarrestabile declino, appena stemperato dall’ottimo Europeo con Prandelli nel 2012. Infine, l’Italia è rimasta due volte fuori dal Mondiale, ma in mezzo ha vissuto la meravigliosa vittoria a Euro 2021. Nonostante questi alti e bassi, l’amore per la maglia azzurra non si è mai spento.
Foto di Delfino Sisto Legnani
Da Undici n° 24