Corriere della Sera, 16 giugno 2024
Intervista al cardinale Ruini
Ancora oggi, per tutti resta «Sua Eminenza». È Camillo Ruini, che ha guidato la Conferenza episcopale italiana dal 7 marzo 1991 al 7 marzo 2007, attraversando i grandi cambiamenti del Paese. Ma non solo da uomo di Chiesa.
Perché fuori dal Vaticano il cardinale era considerato «un leader politico» dagli stessi leader politici. Nei 16 anni che vanno dal crollo della Prima Repubblica all’apice dell’era berlusconiana ha avuto infatti una forte influenza nelle decisioni dei partiti, nelle scelte legislative dei governi e persino in alcuni passaggi referendari.
Il suo racconto inizia dalla fine della Democrazia cristiana, «con cui la Chiesa aveva tenuto un rapporto storico: era nato alla fine della Seconda guerra, era stato cementato dal voto del 18 aprile del 1948 ed era proseguito nel tempo, pur deteriorandosi per tanti aspetti. Fino a suscitare sempre più insofferenza all’interno della Chiesa. Non tutti infatti erano d’accordo nel proseguire l’alleanza. E, quando mi trovai a presiedere la Cei, difesi finché possibile il rapporto con la Dc. Con il senno di poi, posso dire che forse sono andato anche un po’ oltre il possibile».
In che senso?
«Nel senso che già all’inizio degli anni Novanta non c’era ormai più niente da fare. Feci ancora un tentativo, firmai un articolo su Avvenire in cui dicevo che il rapporto tra la Chiesa e la Dc si basava su un punto imprescindibile: la ritenevamo l’unica forza in grado di appoggiare e garantire principi e valori per noi irrinunciabili. Ma questo rapporto non sarebbe sopravvissuto se i politici si fossero disimpegnati. In tal caso, ne avremmo preso atto. E quell’alleanza – che passava per collateralismo – si sarebbe sciolta. Era un messaggio rivolto ai dirigenti della Dc, per far capire che era loro responsabilità tenere una certa linea».
Poi arrivò Tangentopoli e spazzò via tutto.
«Senza Mani Pulite non sono affatto sicuro che i politici della Prima Repubblica sarebbero durati ancora a lungo. Ma non c’è dubbio che la fine fu provocata da Mani Pulite».
Quale era il suo giudizio sulla stagione giudiziaria?
«Il giudizio era e resta negativo. Emersero effettivamente problemi di legalità, ma ero sconcertato nel vedere amici cari morire sotto il peso di accuse mai dimostrate. Assistere a metodi che sembravano intimidatori verso le persone e persino verso le istituzioni. Constatare gli sconfinamenti di potere e quel meccanismo unilaterale in base al quale c’era chi veniva salvato e chi no».
Sollecitò qualche voce del mondo cattolico a farsi sentire?
«Mi rivolsi a Franco Marini. Lo esortai: “Faccia un discorso forte sulla giustizia, come quello che ha fatto Bettino Craxi in Parlamento”. Mi rispose: “Ci ho pensato ma non me la sento”».
La Dc è caduta.
«Ed è stato un brutto modo di cadere. Quando accadde ci interrogammo, perché anche per noi si poneva un problema. Dissi subito: “Un altro partito dei cattolici è impossibile”. Percepii che, storicamente, non c’era più lo spazio».
Non poteva essere il nascente Partito popolare italiano a prenderne l’eredità?
«In quel periodo di passaggio da un partito all’altro ero molto ricercato da uomini politici della Dc e di altre forze che volevano consultarmi. Da Mino Martinazzoli a Giovanni Spadolini».
Che c’entrava una personalità laica, come il repubblicano Spadolini, in quel dibattito tutto interno al mondo politico cattolico?
«Spadolini venne da me per opporsi al cambio di nome della Dc. Mi chiese di fare qualcosa per impedirlo. Ricordo le sue parole: “Da storico le dico che il nome Democrazia cristiana è il nome della vittoria dei cattolici. Partito popolare è invece il nome della sconfitta”. Gli risposi: “Presidente, sono d’accordo con lei, ma non decido io”».
Tentò di dissuadere i dirigenti della Dc?
«Ci provai quando mi vennero a parlare del cambio del nome. Lo dissi a Martinazzoli, a Rosa Russo Jervolino, a Rosy Bindi. Ma niente. E pensare che Martinazzoli quando veniva da me condivideva le mie preoccupazioni. Però poi non si muoveva conseguentemente. Non so perché».
Quali erano le sue «preoccupazioni»?
«La collocazione politica era il tema per me più importante. Temevo che il partito, spostandosi a sinistra, avrebbe perso il suo elettorato. Il Ppi si era definito “alternativo” alla Lega, che allora era la destra emergente, mentre si era dichiarato “antagonista” della sinistra. Questo era il grande cambiamento. Fino ad allora la Dc era stata “alternativa” al Pci, la sua forza elettorale si reggeva sul rappresentare i cattolici ma anche, e forse soprattutto, sull’essere la diga al comunismo. Venuto meno questo, sapevo che elettoralmente sarebbero franati».
Glielo disse?
La fine della Dc
Quando accadde ci interrogammo. Io dissi subito: “Impossibile un altro partito dei cattolici” Non c’era più lo spazio
«Li avvisai: “Prenderete al massimo il 15%”. Mi risposero: “Non andrà così, al Sud vinceremo noi”. “Non illudetevi”, conclusi. Purtroppo avevo ragione e Martinazzoli si dimise da segretario subito dopo il voto del 1994».
Quando vinse Silvio Berlusconi.
«Che era l’altro tema in vista delle elezioni. Nel Ppi c’era chi, come Rocco Buttiglione, spingeva per allearsi con Berlusconi: personalmente ritenevo fosse molto importante stabilire un’intesa con lui, se non altro per avere una maggiore consistenza numerica. In quella fase lo vidi per la prima volta, ma alla fine l’intesa tra lui e i Popolari non fu possibile. E, all’indomani del risultato, la tendenza prevalente nel Ppi fu di demonizzare Berlusconi, incolpandolo di aver rubato i loro voti e di rappresentare un pericolo per la democrazia. Non accettai questa linea».
E lo fece sapere.
«La domenica successiva al voto, sull’inserto di Avvenire per la diocesi di Roma, feci pubblicare un breve articolo redazionale. C’era scritto che si prendeva atto di questa novità politica con interesse, in attesa di verificarla alla prova dei fatti. L’intenzione era di aprire una porta, non di chiuderla. E mi attirai le critiche molto dure di quanti, come il mio amico Beniamino Andreatta, dissentirono da questa posizione».
Mentre Berlusconi la apprezzò.
«Dopo essere diventato presidente del Consiglio fu molto gentile a venire da noi alla Cei. Si mise a disposizione. Disse che il suo governo sarebbe stato pronto a intensificare i rapporti con la Chiesa».
E sulla parte dei principi e dei valori?
«A parole diceva di essere totalmente d’accordo con noi».
Ma delle «parole» lei non si fidava.
«All’interno della Chiesa discutemmo sulla posizione da prendere rispetto al mutato scenario politico italiano. Mantenere con il Ppi il rapporto che avevamo avuto con la Dc era ormai impossibile. In ogni caso non volevamo alcun tipo di nuovo collateralismo. Con nessuno. Nemmeno con Berlusconi».
Quale fu allora la decisione?
«Nel 1995, nel suo discorso conclusivo al convegno ecclesiale di Palermo, Giovanni Paolo II dichiarò che la Chiesa non avrebbe dovuto coinvolgersi con alcuna scelta di schieramento politico o di partito. “Ma – aggiunse – ciò non implica in alcun modo una diaspora culturale dei cattolici”. Voleva dire che non si può ritenere compatibile con la fede l’adesione a forze politiche che si oppongono o non prestano attenzione ai principi della dottrina sociale della Chiesa: sulla persona, sul rispetto della vita umana, sulla famiglia, sulla libertà scolastica, la solidarietà, la promozione della giustizia e della pace. Fu una linea saggia e producente».
A cosa si riferisce?
«Allungando un po’ lo sguardo, i momenti salienti furono il referendum sulla procreazione assistita: puntando sull’astensione ottenemmo il 74%. E più tardi l’opposizione alla legge del governo di Romano Prodi sui Dico, che apriva le porte al riconoscimento delle unioni tra omosessuali. Non ero più presidente della Cei, ma guidai ancora io quel passaggio. E grazie alla manifestazione del Family day quel provvedimento si fermò. Ecco, sia il referendum sia il Family day furono esempi del modo in cui la Chiesa si posizionò in proprio, esprimendo direttamente la sua posizione».
Ma sempre opposta al centrosinistra.
«Non proprio. Infatti con Francesco Rutelli alla guida della Margherita fu possibile avviare un rapporto collaborativo. E ci impegnammo in tal senso. Rutelli fece degli interventi precisi e competenti sulla questione della procreazione assistita, dicendo che si sarebbe astenuto, come avevamo chiesto. La nostra posizione autonoma dava quindi dei risultati. Piuttosto non consideravamo Berlusconi un pericolo per la Repubblica, tutto qui».
A tale proposito, nel libro edito dal «Corriere» sui presidenti della Repubblica, «Il Colle d’Italia», si racconta di un pranzo al Quirinale che sarebbe avvenuto subito dopo l’estate del 1994. C’è scritto che l’allora capo dello Stato Oscar Luigi Scalfaro avrebbe invitato lei, il cardinale Angelo Sodano e monsignor Jean-Louis Tauran per chiedervi di «aiutarlo a far cadere il governo Berlusconi». E che la vostra risposta sarebbe stata un «silenzio imbarazzato».
(Impiega un po’ prima di rispondere) «Effettivamente andò così. La nostra decisione di opporci a quella che ci appariva come una manovra – al di là della indubbia buona fede di Scalfaro – fu unanime. E pensare che Scalfaro era stato per me un grande amico. Rammento quando De Mita nel 1987 gli aveva offerto di diventare presidente del Consiglio, in opposizione a Craxi e con la benevolenza del Pci. Scalfaro allora era venuto da me e mi aveva detto che avrebbe rifiutato. “Fa bene”, avevo risposto. E infatti a palazzo Chigi sarebbe poi andato Amintore Fanfani. Per questo rimasi colpito dal modo in cui aveva cambiato posizione, così nettamente (altra pausa). Penso che Berlusconi abbia mostrato i suoi pregi e i suoi limiti, come tutti gli altri politici, ma che non abbia avuto in alcun modo fini eversivi. I pericoli per la Repubblica semmai erano altri».
È rimasto legato a qualche capo dello Stato?
«A Carlo Azeglio Ciampi. Una personalità intelligente e seria. È stato un ottimo presidente per l’Italia e siamo stati molto, molto amici. Ancora adesso quando telefono alla moglie, che ha 102 anni, è felice di sentirmi».