Corriere della Sera, 16 giugno 2024
Intervista a Milo Infante
Milo Infante, come nasce il tormentone di Fiorello quando dice che lei è il «bello di Raidue»?
«È solo invidia dei miei capelli».
Dice anche: toccategli tutto, ma non il parrucchiere, passa 25 minuti a farsi chiudere riporti e riportini.
«A furia di malignità, mi ha fatto togliere la parrucchiera: la Rai l’ha mandata da Alessandro Cattelan. Ormai, i capelli me li pettino da solo».
In realtà, il suo Ore14 e il Viva Rai2 di Fiorello si sono contesi per mesi la palma del programma più visto della rete. Come si spiega un milione di telespettatori per un talk di cronaca in onda dopo pranzo?
«Se avessi dovuto scommetterci un centesimo quando ho iniziato, quattro anni fa, non l’avrei fatto. Anche perché arriviamo dalle rubriche del tg, non abbiamo il trenta per cento di traino. Eppure, lo share sale dal 5 all’8, al 9 per cento, e siamo più visti anche del programma che ci segue: vuol dire che la gente si sintonizza proprio per vedere noi».
I dirigenti Rai la copriranno di complimenti.
«Scherza? Siamo il programma più inosservato nella storia della tv: mai visto un comunicato sugli ascolti record, mai stati citati in una conferenza stampa. Poi, il direttore Paolo Corsini, quando lo sento, mi dice: non t i chiamo perché non mi dai problemi. Ma se un pezzo della Rai ci ignora, la considerazione del Tgr ci consente di arrivare sulle notizie fra i primi. Questo è uno dei motivi del nostro successo, un altro è l’alchimia fra il pubblico e i nostri ospiti, che non rispondono a domande a piacere, ma apportano informazioni, esperienze, elementi di verità. Piace anche che non abbiamo paura di prendere posizione e siamo sempre contro le ingiustizie».
Femminicidi, apparizioni di madonne, stupri e risse fra giovanissimi... Che Italia è quella che racconta ogni giorno?
«Un Paese in difficoltà in cui vengono commessi sistematicamente reati ormai depenalizzati, mentre altri reati, odiosi, come la truffa agli anziani, finiscono impuniti. Un Paese in cui ragazzini commettono rapine e furti, confidando nell’assenza di conseguenze e in cui, in generale, la mancanza di repressione trova giustificazione nella mancanza di posti in carcere e di forze dell’ordine sul territorio. Io ho un figlio di sedici anni e se è in giro, ho paura. Eppure, vengo da un brutto quartiere di Milano, ma ai tempi non succedeva che un quattordicenne picchiasse un coetaneo col tirapugni per rubargli dieci euro».
Fare una tv che sottolinea la richiesta di sicurezza porta voti alla destra e conferma i sospetti di chi la ascrive in quota Lega?
«Questa tv porta voti alla destra solo se è al potere la sinistra. Se la premier è Giorgia Meloni e la tv sottolinea un problema di ordine pubblico, non credo che al governo siano contenti».
Qual è il «brutto quartiere» da cui arriva lei?
«Fermata Villa San Giovanni. Viale Monza 325 era un casermone affacciato su un giardinetto, eravamo tutti figli di tante madri: la mamma di Max, dal balcone, controllava anche Giacomo, Claudio, Milo. E quando il portiere diceva la famosa frase “il pallone te lo buco”, noi avevamo paura. Oggi, quel portiere avrebbe paura di essere preso a sprangate. C’era una rete di controllo e protezione ormai sparita. Oggi, se hai bisogno di aiuto, devi sperare in un angelo, in un eroe. E dove si ritrovano i ragazzi, che fanno? Noi avevamo la parrocchia e le cerbottane, le biglie. Passavamo le giornate in bici, i bambini ricchi sulla Saltafoss; gli altri, noi, sulla Redefoss».
Della compagnia della Redefoss se la sono cavata tutti?
«Ricordo una notte in cui tornai a casa tardi. Facevo il giornalista all’Indipendente, parcheggio e vedo un compagno delle elementari che mi fa segno di stare zitto. Non capisco, ma in un attimo arrivano le auto della polizia per un’operazione antidroga. Era un mondo così: c’era chi cresceva diritto e chi storto. Poi, la delinquenza giovanile è peggiorata mentre derubricavamo rapine e violenze al termine “baby gang” e cercavamo scuse: la società, la famiglia...».
Lei ha l’età dei padri di questi ragazzi. Dove ha sbagliato la sua generazione?
«L’adolescente che manda al diavolo il carabiniere è lo stesso che, se il preside lo riprende, il padre dice: ora vengo a scuola e lo sistemo io. È figlio di questa arroganza».
Invece, suo papà Massimo, che fu inviato di quotidiani e saggista, come l’ha educata?
«Mio padre era anzitutto una brava persona. Scriveva di terrorismo, faceva grandi inchieste e, per quello che so, non ha mai scritto il falso. Da direttore dell’Alto Adige, era arrivato alla Notte, a Milano, ricominciando da capo, perché in Trentino era stato truffato da un amico che gli aveva fatto perdere i suoi risparmi. Fra i suoi tanti racconti, c’è quello su un amico che gli chiede di essere presentato al direttore Nino Nutrizio. Papà invia un biglietto al direttore, segnalando un bravo collega. Il direttore assume l’amico, che poi gli parla male di mio padre. Al che, Nutrizio restituisce il biglietto a papà, dicendo: riponete maggiore attenzione alle persone di cui vi circondate. In quest’episodio, ci sono tanto di Nutrizio e tanto dell’ingenuità di mio padre».
E lei si ritrova in questa ingenuità?
«Ho avuto amici che, quando ho fatto causa alla Rai per demansionamento, hanno testimoniato il falso contro di me».
La causa con la Rai l’ha vinta. Cos’era successo? Era sgradito a qualche politico?
«Ne ho vinte quattro. La politica non c’entra. Siamo a cavallo tra il Berlusconi IV e il governo Monti e, in Rai, era una fase di transizione folle. Io facevo L’Italia sul due e c’era un vicedirettore che faceva liste di proscrizione infinite degli ospiti, da don Mazzi a tutti i giornalisti del Giornale. Gli chiesi di motivare i veti, mi ritrovai a timbrare il cartellino senza niente da fare».
Non poteva rinunciare a qualche ospite?
«Io, già da ragazzino, se partiva una rissa, intervenivo dalla parte di chi era preso di mira».
Com’era arrivato in Rai?
«La prima volta mi chiama il direttore Antonio Marano: cercavano un volto del Nord da affiancare a Monica Leofreddi. Ero appena diventato direttore di Antenna 3 e non volli mettere in difficoltà il mio editore dimettendomi. La seconda volta, Marano mi fa: questa è l’ultima chiamata. Sono passato da essere il direttore di un’emittente lombarda, fresco vincitore dell’Ambrogino d’oro, a fare l’apprendista della tv nazionale: all’inizio, stavo accanto a Monica e facevo una domanda ogni tanto. Ero passato da Tonino Di Pietro il magistrato ad Antonino Di Pietro il dermatologo, tutto un mondo che non conoscevo».
Come e quando era arrivata la vocazione per il giornalismo?
«Ho un tema di seconda elementare in cui raccontavo che io e mamma avevamo accompagnato papà inviato sul disastro di Cavalese. Iniziava così: dal vostro inviato Milo Infante. La curiosità giornalistica è un istinto che ho sempre avuto. Ancora oggi, a 56 anni, se sento la sirena della polizia, cerco di capire che succede e non riesco ad accontentarmi della prima risposta. Prenda il caso di Denise Pipitone».
Nessuno più di lei ha spinto per riaprire le inchieste e avere una commissione parlamentare.
«Qualcuno dice che sono ossessionato da quel caso, ma per me è un dovere arrivare alla verità e fare qualcosa per avere giustizia. Io provo dolore per i suoi genitori, come per tutti i familiari delle vittime. Invidio i colleghi che scrivono il pezzo e passano ad altro».
Com’è finita con la querela che su questa vicenda si è preso dai pm di Marsala?
«Il Pm ha chiesto l’archiviazione, ma il Gip ha disposto l’imputazione coatta. Andrò a processo in nome della libertà di stampa».
Perché, anche se non doveva girare lei il servizio, ha ripercorso in auto, nelle campagne modenesi, l’ultimo tragitto di Alice Neri e del suo presunto assassino Mohamed Gaaloul?
«Non c’è un delitto dove non sia andato a guardarmi intorno. Stavolta, quando dovevo svoltare sull’argine del fiume dove si sono fermati, non me la sono sentita: era pericoloso. Lì, mi sono fatto l’idea che non guidava più Alice, ma qualcuno del posto e che i due si siano scambiati la guida o che, con la prima inversione di marcia, siano andati a incontrare qualcuno».
È vero che ha rifiutato una prima serata?
«Non è esattamente così: per farne funzionare una di cronaca partendo da zero, dovresti tenere, almeno per un anno, anche la striscia quotidiana utile a lanciarla e sostenerla e non era quello che mi era stato prospettato».
Ha sposato Sara Venturi, avvocato penalista, Miss Padania 1998, com’era finito nella giuria che la incoronò?
«Per caso. Avevo accompagnato il direttore Daniele Vimercati, di cui ero vice a Telelombardia. Comunque, con Sara ci siamo ritrovati e frequentati solo anni dopo».
Lei che marito è?
«Cerco di essere un marito che, come ha detto don Mazzi quando ci ha sposati, rinnova il matrimonio ogni giorno».
Nella quotidianità?
«Cucino, faccio la spesa, e il sabato e la domenica pulisco di fino la casa, arrabbiandomi perché non la trovo mai pulita come vorrei».
E sua moglie la sopporta?
«Sara è la roccia su cui si infrange l’onda: sa che mi arrabbio per dieci secondi e all’undicesimo me ne sono dimenticato».
La sua faccia da bravo ragazzo piace a nonne e casalinghe. Lei si ritiene un bravo ragazzo?
«Ho dato dispiaceri ai miei genitori. Quando stavamo in affitto in 60 metri quadrati, doveva venire un compagno di liceo e dissi: mi vergogno di questa casa. Lo sguardo di mia madre me lo porto dentro. I miei fecero un mutuo carissimo per 75 metri lì accanto e sono mancati prima che potessi ripagarli dei loro sacrifici. Non sono stato un bravo ragazzo, ma penso di essere una persona onesta. Se mi chiede cosa vorrei che gli altri pensassero di me, vorrei che fosse quello che penso io di mio padre: era un brav’uomo».