Corriere della Sera, 16 giugno 2024
Il comunismo decolonizzatore
A Livorno, il 21 gennaio del 1921, al termine del XVII Congresso del Partito socialista italiano, i delegati della corrente che, pur all’interno del Psi, già si definivano «comunisti», si separarono dal Congresso e diedero vita al Partito comunista d’Italia. In Francia, a Tours, qualche mese prima era accaduta la stessa separazione. In Germania i Socialisti «unitari», distaccatisi nel 1917 dalla Spd (Partito socialdemocratico tedesco: il partito di Engels e Kautsky, di Bebel e Rosa Luxemburg) si erano costituiti in Kpd (Partito comunista di Germania) nel corso del 1920. La «casa madre» era a Mosca, dove la frazione «bolscevica» (cioè «maggioritaria») del Posdr (Partito operaio socialdemocratico russo), capeggiata da Lenin, costituitasi in Pcr (Partito comunista russo) aveva preso il potere nell’ottobre (7 novembre per il nostro calendario) del 1917 soppiantando il governo provvisorio di Kerenskij (Socialista rivoluzionario: SR). Così «comunista» si contrapponeva a «socialista», e la scelta di chi si separava, e assumeva una nuova e radicale denominazione, appariva confortata dal successo ottenuto in Russia dalla «scorciatoia» rivoluzionaria per la presa del potere.
La divergenza lacerante verteva appunto sulla «scorciatoia». Al Congresso di Livorno, uno dei più autorevoli esponenti socialisti, Filippo Turati (1857-1932), allora sessantaquattrenne, affrontò direttamente la questione rivolgendosi all’allora venticinquenne Umberto Terracini (1895-1983), il quale aveva parlato per la frazione comunista. Turati disse: «In un tempo che i giovani non possono ricordare, io con pochissimi altri abbiamo portato nella lotta politica per la prima volta in Italia la suprema finalità del socialismo: la conquista del potere da parte del proletariato costituito in partito indipendente di classe, quella conquista del potere che ieri il compagno Terracini enunciava come un segno di distinzione tra la loro schiera e la nostra». Intendeva dire: il fine è uguale, divergiamo sul metodo. E però chiariva, poco oltre, nel suo intervento che nell’anno in cui Terracini era nato, il 1895, Engels – «il braccio destro, anzi cervello destro di Marx» – aveva ammonito, quasi mezzo secolo dopo il Manifesto dei comunisti del 1848, che la «via legale» per la presa del potere era la più feconda di risultati, che «le classi che detengono il potere hanno più paura dell’azione legale del proletariato che dell’azione illegale e dell’insurrezione», e che esse – secondo la nota battuta di Engels – esclamano e si lamentano: «La legalità ci uccide!». «Saranno loro che dovranno rompere la legalità, non noi» seguitava Turati citando quasi alla lettera Engels, e ne completava il pensiero aggiungendo: «La legalità, li uccide veramente, definitivamente». Non è un caso che, il giorno dopo la scissione comunista, il «Corriere della Sera» pubblicasse un notevole articolo non firmato, il cui succo era: il vero pericolo è Turati, col suo riformismo che è costoso per le finanze (e per il capitale), non i giovani comunisti di Bordiga e Terracini.
Tutta la vicenda successiva, in Europa, si è sviluppata – nell’ambito della sinistra – nello scontro tra le due opzioni. Il movimento comunista additava un risultato tangibile (la Russia con i suoi mutamenti radicali e i suoi ordinamenti radicali), il movimento socialista, pur reduce dall’ancora recente fallimento consumatosi nel 1914 (accodarsi al bellicismo dei governi), poteva additare lo scacco subito dal movimento comunista in Occidente, dove i socialisti rimanevano comunque maggioritari persino nel ceto operaio. Nel frattempo il fascismo – nelle sue diverse varianti – prendeva il potere presentandosi come la «vera» rivoluzione (in quanto nazionale) e avviava il continente europeo alla catastrofe bellica. Fu una lezione per entrambi i tronconi del socialismo, portati dall’evolversi stesso della realtà fattuale, a ritrovare forme di unione, terreno comune di lotta, e rilancio della «via legale», per dirla con Engels e Turati. Nell’VIII Congresso del Pci (dicembre 1956) Togliatti nel rapporto ai delegati rivendicò: «Noi siamo democratici perché ci muoviamo nell’ambito della Costituzione, del costume democratico e della legalità che essa determina ed esigiamo da tutti il rispetto di questa legalità, di tutte le norme costituzionali da parte di tutti e prima di tutto dei governi. Il terreno della democrazia lo abbiamo conquistato per procedere, sopra di esso, verso il socialismo. Sarebbe perciò assurdo che lo negassimo. Anzi lo difendiamo». E trasmetteva ai comunisti italiani il senso e il convincimento di «vedere nelle norme della vita democratica e costituzionale non un ostacolo, ma un aiuto a una costruzione socialista che proceda col minimo di rotture e di sacrifici per le masse stesse lavoratrici e per il Paese». E si concesse un paragone storico che non gli dispiaceva: «Se nel 1917, ancora pochi mesi prima dell’ottobre, in quella situazione infiammata, lo stesso Lenin non escludeva uno sviluppo pacifico della rivoluzione socialista e il permanere di una pluralità di partiti, a ben maggiore diritto possiamo noi oggi, in un mondo così profondamente rinnovato dal socialismo, considerare nostro compito storico fondamentale l’attuazione di questa possibilità!».
Qui la frase che ci riporta alla più generale vicenda storica è: «In un mondo così profondamente rinnovato dal socialismo». Non era una autoillusione. Significava, ed oggi ciò si coglie ancor più che settant’anni fa quando Togliatti così si esprimeva, che la rivoluzione comunista, non esportabile nell’Europa, aveva innescato il più vasto fenomeno storico del XX e del XXI secolo: la faticosa, contrastata, ma inarrestabile decolonizzazione. Veniva, da allora in avanti, messo in discussione il dominio imperialistico dell’Occidente sul resto del pianeta. La partita è aperta: il movimento comunista si è risolto nel portato stesso della sua azione, divenendo altro, com’è norma nella vicenda storica: dal tempo di Clistene.