la Repubblica, 16 giugno 2024
Intervista ad Aung San Suu Kyi
«Mia madre Aung San Suu Kyi compirà 79 anni il 19 giugno, nell’isolamento in cui è costretta dal 2021: condannata a 27 anni sulla base di false accuse rivoltele dalla giunta militare che quell’anno rovesciò il suo governo con un colpo di Stato. Di lei, non so nulla da mesi». Kim Aris, 47 anni, secondogenito dell’attivista e del tibetologo britannico Michael Aris, è rimasto in silenzio per anni.
Lasciando parlare per lui il suo corpo interamente tatuato col “Naga”, il drago d’acqua burmese, simbolo della resistenza nel suo Paese. Infine ha scelto di cogliere il testimone della battaglia per la democrazia di quella mamma pur vista poco. Fiera oppositrice del regime militare birmano (i democratici preferiscono chiamare il paeseBurma, Birmania, perché Myanmar è gradito ai militari), premiata col Nobel per la Pace nel 1991.
Dopo aver vinto le elezioni nel 2016 e 2020 è stata ministra degli Esteri e poi consigliera di Stato. Suo figlio Aris oggi gira il mondo parlando di lei e della guerra in corso nel suo Paese. In questi giorni è in Italia, a Parma, ospite dell’Associazione Amicizia Italo-Birmana.
Come sta sua madre?
«Francamente, non lo so. In tre anni e mezzo abbiamo ricevuto un’unica lettera da lei, lo scorso gennaio.
Avevamo saputo che stava male, tormentata da un brutto mal di denti non curato che le impediva di mangiare, la faceva vomitare e le dava giramenti di testa. Io e mio fratello abbiamo dunque mandato un pacco di medicinali. E a gennaio abbiamo incredibilmente ricevuto un suo messaggio autografo: ringraziava ma non ci rassicurava.
Stava ancora male. Abbiamo subito spedito un altro pacco. Ma non abbiamo più avuto altre notizie da lei».
Ad aprile i militari hanno detto di averla spostato dal carcere ad arresti domiciliari in una località segreta. Lei ha detto che lo hanno fatto per usarla come “scudo umano”. Perché?
«Dicono di averla spostata per proteggerla dal forte caldo di questa stagione. Ma non l’hanno portata nella sua casa di Rangoon. Per quel che ne sappiamo, potrebbe dunque essere ancora in carcere. O, se davvero è in una casa, è tenuta in una località segreta per altri motivi: la resistenza controlla ormai il 60 per cento del Paese, i combattimenti sono sempre più vicini a Naypyidaw, roccaforte dei militari. Non far sapere dove si trova la leader dell’opposizione potrebbe essere un modo per proteggersi da attacchi pesanti contro di loro. E un domani potrebbero perfino usarla come merce di scambio».
Teme di non rivederla?
«No. La Junta è molto debole e non ha il controllo del Paese. L’economia è crollata, siamo diventati epicentro di crimine, traffici umani, produzione di oppio e metanfetamine. Sono convinto che mia madre sarà presto libera. Ha quasi 80 anni e ha trascorso un quarto della sua vita in prigionia, merita di vedere il suo sogno democratico realizzato».
Aveva undici anni quando sua madre decise di lasciare l’Inghilterra dove vivevate, per tornare in Birmania. Fu difficile da accettare?
«Ero un bambino, fu certo difficile.
Negli anni ’90 però, quando finì la prima volta agli arresti domiciliari, potei stare con lei. Ricordo quelperiodo con tenerezza, quello in cui siamo stati più vicini. Il resto del tempo sono sempre stato con mio padre e mio fratello di 4 anni più grande. Papà ci ha aiutati a capire, rendendoci fieri di nostra madre.
D’altronde l’ha sempre sostenuta anche a distanza. Per lui è stata molto più dura che per chiunque altro. Ma sapeva che senza il suosostegno lei non ce l’avrebbe fatta a diventare quel che è».
Noi la conosciamo come Aung San Suu Kyi, icona di democrazia.
Com’è in privato?
«Per me è sempre stata solo la mia mamma. Quella che mi chiedeva con fermezza se avevo fatto i compiti ma poi era estremamente gentile. Ogni momento con lei mi è estremamente caro. So che è difficile capire dall’esterno, ma non ho avuto nessun’altra vita e la sua assenza alla fine mi è sembrata normale».
Quando l’ha vista l’ultima volta?
«Nel 2017. Andai a trovarla, ma aveva tante responsabilità politiche, era molto impegnata. La volta precedente era stata nel 2010: le regalai un cucciolo di cane che divenne per lei un importante compagno. Per il resto, ci siamo sempre sentiti al telefono».
In cosa consiste il concetto di “pace burmese” da lei professato?
«Uso le sue parole: “Un’attitudine basata sulla definizione burmese di pace: consiste nel rimuovere tutti i fattori negativi che mirano a distruggerla. Pace non è solo mettere fine alle violenze ma a ciò che la minaccia: discriminazione, diseguaglianze, povertà”. Il mondo dovrebbe ispirarsi a queste parole, oggi più che mai».
Fu suo fratello Alex a pronunciare il discorso di accettazione del Nobelconferitole nel 1991. Cosa ricorda?
«Una grande fierezza. Ma avevo 13 anni, non capivo bene l’enormità della cosa».
Ha taciuto a lungo. Cosa l’ha spinta, infine, a cogliere il testimone della lotta di sua mamma?
«Poco prima di andare a trovarla nel 2010, mi tatuai addosso un drago perché volevo affermare il mio sostegno senza parlare. Non mi piace essere una figura pubblica. Ma lei è in prigione e ho il dovere di fare qualcosa. Non posso permettere che sia dimenticata. Raccoglierne il testimone è stata l’unica decisione possibile».
La comunità internazionale ne ha fatto un’icona. Poi l’ha duramente attaccata...
«Quando era al potere l’accusarono di non aver fatto abbastanza per la minoranza Rohingya, nonostante la colpa delle loro condizioni fosse dei militari precedentemente al governo. Finì che nel 2017 nessuno sostenne la sua determinazione nel consegnare i militari alla giustizia.
Se avesse avuto più sostegno allora, forse l’attuale guerra civile si sarebbe evitata».
Cosa si può ancora fare?
«Diffondere informazioni su quanto accade in Birmania è fondamentale. Poi bisognerebbe dare più supporto alla resistenza, innanzitutto con aiuti umanitari. Ma servirebbero anche armi. I militari fanno affidamento proprio sul fatto che gli oppositori sono mal armati e non hanno alle spalle nessuna grande potenza».
Lei ha lanciato una campagna di raccolta fondi che passa attraverso i tatuaggi...
«Attivisti della diaspora birmana e semplici sostenitori si fanno tatuare il drago d’acqua e poi pubblicano le immagini sui social in segno di solidarietà. Ma una parte consistente della Freedom Tattoo Campaign consiste nella raccolta fondi. La colletta ha già fruttato centomila dollari, usati per fornire aiuti umanitari alla popolazione e sostegno alle famiglie dei dissidenti politici. Ma abbiamo ancora bisogno di aiuto».