la Repubblica, 16 giugno 2024
Il giorno dopo la Maturità
C’ è stato un tempo in cui il cosiddetto “esame di Maturità” era una cesura che segnava il passaggio verso l’età adulta. L’ingresso all’università per alcuni, nel mondo del lavoro per altri, il matrimonio per tante ragazze che, già privilegiate per aver completato gli studi superiori, viravano direttamente verso la collocazione familiare come mogli e madri. Era un esame duro, durissimo, la bocciatura era una eventualità non rara, il voto (espresso all’epoca in sessantesimi) poteva essere quel gettone prezioso che avrebbe spinto l’ascensore sociale ai piani più alti. L’esame, introdotto nel 1923 dal ministro dell’Istruzione Giovanni Gentile, consisteva in una verifica capestro composta da quattro prove scritte e una prova orale in tutte le materie sull’intero programma del triennio.
Nel corso dei decenni si è ammorbidito diventando più facile, ha subito tanti cambiamenti quasi quanti sono stati i governi in carica, ognuno ha voluto lasciare il suo ricordo, l’ultimo in ordine di tempo è l’introduzione del “capolavoro dello studente” (sic!), ovvero una prodezza realizzata in campo scolastico, ma anche sportivo, artistico, personale da magnificare di fronte alla commissione al momento dell’esame orale. «La maturità è tutto», scriveva Cesare Pavese in esergo a La luna e i falò prendendo in prestito la frase dal Re Lear di Shakespeare. La Maturità è un talent, si potrebbe dire oggi.
Eppure quei giorni di fine giugno in cui si fa mattina tutti insieme ascoltando all’infinito la canzone eponima di Venditti, quella scommessa a perdere del toto-traccia, quel tam tam della seconda prova scritta, quelle mani sudate in attesa della convocazione per l’orale, quel ripassare intorno al tavolino di un bar i problemi di fisica o il pensiero di Marx restano un momento iconico nella vita di migliaia di ragazzi che ogni anno attendono “l’esame” per antonomasia con la stessa tensione dei loro predecessori. Non perché aprirà loro le porte dell’università o del mondo del lavoro, e nemmeno perché dal giorno dopo diventeranno adulti. La “Maturità” rimane un rito di passaggio, forse l’ultimo rito collettivo della nostra epoca, perché segna la fine di una dimensione comunitaria, della condivisione quotidiana di sogni, bisogni, desideri, aspettative, ansie.
Perché salutare i professori significa per i ragazzi dire addio a chi in qualche modo si è preso cura di loro e consegnarsi al mondo degli adulti, in cui i compiti bisogna darseli da soli, e anche i voti. Perché uscire dalla classe significa anche uscire da un ambiente protetto, in cui ciascuno ha diritto al proprio banco, ed entrare in un mondo in cui il banco bisogna trovarselo, e non è per nulla garantito che ci sia posto per tutti. Dal giorno dopo la Maturità nessuno più farà l’appello e scandirà il loro cognome, nessuno chiederà una giustificazione alle loro assenze. Gli esami di Maturità resteranno nel ricordo di tutti gli ultimi giorni in cui siamo stati ragazzi. Dopo, inizia la solitudine dell’adulto, questo dover far da balia a se stessi, questa paura di sparire senza essere cercati. Complimenti e rimproveri, giudizi e voti, in fondo, rassicurano sul fatto di stare a cuore a qualcuno, di essere visti, di essere sognati. E, come scriveva Danilo Dolci, «ciascuno cresce solo se sognato». La capacità di giudicarsi da soli da quel momento in poi, questo sarà forse il loro vero “capolavoro”.