Corriere della Sera, 15 giugno 2024
L’orgoglio di essere italiani
Com’è stato bello assistere alle incredibili vittorie degli atleti azzurri in queste serate magiche, è stato altrettanto bello sentire i pochi esclusi dal medagliere dire: «Andiamo avanti. Dalle sconfitte non si può che imparare». C’era orgoglio in loro e un forte spirito di squadra, entrambi sentimenti piuttosto rari nei vari campi della realtà nazionale dove vive ormai immutata la legge del «tutti contro tutti». Se non domati dalla cultura, il guelfo e il ghibellino sonnecchiano nella maggior parte di noi. Per diventare un atleta di livello bisogna fare molti sacrifici, e accettare il fatto che la realtà esista e che ci parli dei limiti che dobbiamo superare e della forza interiore a cui dobbiamo attingere per farlo. Cosa manca davvero a gran parte degli italiani? La fierezza e l’orgoglio di esserlo.
Anni fa ho visto un bel documentario di Pascal Plisson, Vado a scuola: il grande giorno che raccontava i viaggi impervi che quattro bambini provenienti da zone disagiate dovevano affrontare per raggiungere la loro scuola: attraversavano savane, deserti, montagne, a piedi, a cavallo – uno addirittura veniva spinto dal fratellino su una sedia a rotelle – solo per raggiungere ogni giorno il luogo che avrebbe potuto offrire loro la possibilità di un cambiamento. Appena arrivati, prima dello squillo della campanella, si radunavano in cortile per l’alzabandiera, cantando in coro l’inno del proprio Paese. È lo stesso orgoglio che ho visto brillare in questi giorni negli occhi dei nostri atleti sul podio, mentre al Parlamento esplodevano le solite indegne risse.
I miei antenati sono stati irredentisti, quando sono nata, Trieste era stata da poco restituita all’Italia, dunque l’essere italiani veniva visto come una conquista e un privilegio di cui essere orgogliosi. Le maestre ci facevano imparare canzoni patriottiche e tutto ciò che esisteva al di là di Monfalcone, cioè l’Italia, era considerato come uno scrigno delle meraviglie. Venivamo interrogati davanti alle carte geografiche mute sulle quali dovevamo indicare con sicurezza le varie regioni, i capoluoghi di provincia, i nomi dei fiumi e le diverse denominazioni delle Alpi. Conoscere la realtà geografica dell’Italia non è forse uno dei modi per capire e per rendersi conto di vivere in un Paese straordinario?
Personalmente, in quanto artista, non c’è alcun altro luogo in cui vorrei vivere. Amo dunque la mia patria e credo che uno dei più grandi errori che abbia fatto la sinistra sia stato proprio quello di irridere e ridicolizzare questo termine così invece fondamentale per l’identità di un popolo. La continua autodenigrazione, il disprezzo e la non cura dei beni pubblici – non c’è un solo muro o edificio che non sia deturpato con lo spray – la piccola e grande corruzione che aleggia in un mondo in cui si è convinti che l’amichettismo sia più importante delle competenze, che lo Stato sia una mammella da mungere senza dover dare niente in cambio sono il vero male di questo Paese. L’assenza di un orgoglio nazionale annulla il senso dello Stato, cioè la consapevolezza che il nostro benessere dipenda da una complicatissima «macchina» che manda avanti la società e alla quale tutti saremmo chiamati a contribuire con responsabilità e con il peso delle nostre scelte etiche.
Se sono la persona che sono, lo devo ai tre luoghi in cui ho trascorso la mia vita. Trieste mi ha donato le contorte complessità dell’animo centroeuropeo. Roma mi ha regalato la leggerezza, il disordine, l’approssimazione oltre a una bellezza profusa a piene mani. L’Umbria della mia maturità – regione in cui, non so perché, fin da bambina desideravo vivere e poi per motivi del tutto contingenti mi sono trovata davvero a farlo – mi ha fatto conoscere la quieta sobrietà di un mondo in cui l’armonia della natura e la bellezza dell’arte si intrecciano in modo perfetto. La lunga permanenza nel cuore geografico dell’Italia mi ha anche reso consapevole di come, nonostante l’apparente scristianizzazione, permanga nell’animo delle persone il grande respiro di generosità e di apertura verso l’altro che deriva dall’assimilazione millenaria del Vangelo. Forse è importante ricordare che San Benedetto, nato appunto in Umbria, ha contribuito, con la creazione del suo ordine, a salvare la cultura classica, oltre a far compiere, grazie al lavoro dei monaci, progressi straordinari nel campo dell’agricoltura. Per non parlare di San Francesco che, nonostante siano passati ottocento anni dalla sua morte, continua ad attirare a sé folle di giovani e di persone inquiete da tutto il mondo come se fosse un moderno influencer.
È stata la presenza della Chiesa, grazie anche al suo mecenatismo, a trasformare l’Italia in un museo a cielo aperto. Proviamo per un istante a immaginare cosa sarebbe il nostro Paese senza la presenza di queste realtà: cancelliamo da Firenze, da Roma, da Venezia, da Palermo tutte le chiese, usiamo la bacchetta magica per far sparire i Duomi di Orvieto, di Siena, di Pisa e, con loro, le tante piccole commoventi pievi sparse in ogni angolo del Paese... Cosa rimarrebbe di noi? Quando vado a fare la spesa, cammino sulla stessa terra di Bonaventura da Bagnoregio. Se, al bivio, vado a sinistra scendendo verso il basso, so che in quel punto Edith Wharton è stata colta dalla sindrome di Stendhal, scorgendo il Duomo di Orvieto emergere dalla nebbia. Se invece, per tornare a casa, prendo l’altra strada, passo davanti all’abbazia dove soggiornò Nicolò Cusano e quando passeggio per Orvieto so che in quegli stessi vicoli ha camminato Tommaso d’Aquino. Se poi, sempre sulla Rupe, prendo un caffè con un’amica, alzando lo sguardo sul muro di fronte, scorgo una targa che segnala che in quel palazzo ha soggiornato Sigmund Freud. Sono un’appassionata lettrice dei vari Viaggi in Italia scritti nei secoli – Goethe, Stendhal, Montaigne, Ruskin, Piovene – persino Andersen passò qui vicino con una carrozza scalcagnata. Il Grand Tour era un must per tutte le persone benestanti e colte del passato.
Siamo stati per secoli il sogno dell’Europa, lo saremmo ancora se riuscissimo a vincere la faziosità, l’infantilismo e l’idea che chi grida più forte o dice frasi più offensive abbia il diritto di imporsi sugli altri, offrendo l’immagine di un Paese in balia di ripicche umorali e campanilismi da bar che non rendono onore alla grandezza dell’Italia e alla sua storia.