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 2024  giugno 15 Sabato calendario

Intervista a Carlin Petrini


L’ Università di Scienze Gastronomiche di Pollenzo compie vent’anni e Carlin Petrini non tira i remi in barca: «Quando mi dicono: “Hai fatto tanto”, subito mi viene in mente il nostro detto esageruma nen. È sbagliato concentrare tutto in un carisma, ci sono volute tante persone. E il tempo».
Però lei carismatico lo è, senza dubbio.
«Sì, ma il vero capolavoro non è creare le cose quanto fare in modo che continuino dopo di te. Ho lasciato la presidenza sia di Slow Food Italia che Internazionale e sono molto contento di come lavorano senza di me. La regola è che non gli rompo le scatole. Anche quando sbagliano».
Qualche anno fa ha avuto un infarto. La sua vita è cambiata?
«Dico sempre che ho lasciato il mio cuore in Messico... è successo lì. Mi hanno messo uno stent. L’ho vissuto serenamente. Non è stata una svolta esistenziale».
Il resto del suo cuore dove sta?
«In tutti i posti dove ho costruito amicizie vere. In Brasile, in Francia... questo movimento mi ha permesso di incontrare le diversità e molti personaggi straordinari».
Pensavo dicesse che è nelle Langhe.
«La bellezza sta nel mantenere salde radici ma guardando il mondo e percorrendone le strade».
Un momento cruciale?
«L’anno in cui sono nati Terra Madre e Pollenzo. Lì è cambiato tutto: la visione, la credibilità mondiale, lo sviluppo della nostra rete».
Tra l’avventura di Slow Food e quella di Pollenzo si sarà seduto a migliaia di tavole. Una indimenticabile?
«Non posso dire di avere vissuto un solo pasto memorabile così come è impossibile per me parlare di un solo ricordo enogastronomico. Ho viaggiato in tutto il mondo, entrando in contatto con la ricchezza gastronomica delle culture più diverse. Più che parlare di un pasto o di un ricordo preferisco parlare di quello che reputo essere l’ingrediente imprescindibile per un gastronomo».
Qual è?
«La curiosità. Mantenere uno spirito curioso consente di approcciarsi ai diversi piatti e ingredienti conservando una mentalità aperta e non giudicante».
L’addio a Slow Food
Sono contento di come stanno lavorando senza di me. La regola è che non gli rompo le scatole
Il ricordo più vivido legato a Pollenzo?
«La prima volta che andai a vedere quel posto. Era un immobile fatiscente, c’erano i miei collaboratori più stretti. E io: sarà così e così...».
E loro, cosa le dicevano?
«Che ero matto. Raggiungemmo un accordo che riguardava una certa cifra di denaro. Se fossi riuscito a metterla insieme saremmo partiti, altrimenti non se ne sarebbe fatto nulla. Provo ancora tenerezza per i loro sguardi perché era chiaro che pensassero che ero fuori di testa. Abbiamo investito molto di più di quello che avevamo previsto. Il grazie più grande va a loro, gli stessi di allora, per avermi sopportato e per la creatività con cui hanno perseguito i risultati».
Cosa l’ha resa più orgoglioso?
«La specificità di Pollenzo è stata concepire la gastronomia come scienza multidisciplinare. Le Scienze Gastronomiche mettono insieme antropologia, economia, filosofia, genetica... All’inizio i nostri studenti uscivano da qui con una laurea in Agraria, dal 2017 sono state riconosciute le Scienze Gastronomiche anche in altre 17 università italiane. Ne vado molto fiero. Di fronte abbiamo una prateria».
Che porta dove?
«Innanzitutto al superamento del concetto di eurocentrismo. Abbiamo studenti che arrivano da tutto il mondo, non possiamo non comprendere, per esempio, il valore della grande tradizione della gastronomia cinese che quattro secoli prima di Cristo era già codificata. Pollenzo deve diventare sempre più un’agorà dove le diverse realtà internazionali si confrontano e si studiano. È il compito dei prossimi vent’anni».
I vostri allievi hanno una posizione di leadership?
«Senza dubbio. Abbiamo ex allievi con ruoli dirigenziali in Africa, in Latino America... e tutti hanno un legame fortissimo con Pollenzo».
Il cibo è sempre più un tema politico?
«Il nostro rapporto con la natura è in sofferenza. Il cambiamento climatico e altre problematiche stanno causando uno sconquasso anche del sistema alimentare creando una dimensione di vittime e carnefici. Tutti diventiamo complici se non cambiamo stile di vita anche dal punto di vista alimentare. Dobbiamo difendere l’economia e i produttori locali rispettando la stagionalità. Bisogna cambiare il sistema degli allevamenti intensivi. Tutto questo accade, ahimé, in un momento politico difficile. Non possiamo mettere i contadini contro gli ambientalisti: dobbiamo essere una cittadinanza attiva che muta i paradigmi».
I giovani sono cambiati?
«È tempo che abbiano loro più potere e che gli anziani provino a interpretare i nuovi linguaggi. Io stesso devo studiare. Un Paese in cui si deve avere più di 60 anni per ricoprire un ruolo dirigenziale non va bene per niente».