La Stampa, 15 giugno 2024
Sul diritto e sull’aborto
Di questa storia dell’aborto, se inserirne la tutela nella dichiarazione finale del G7 pugliese e in quali forme, mi ha colpito l’uso vasto, disinvolto e imprudente della parola diritto, come l’indole dei tempi prescrive: la proliferazione e la rivendicazione petulante di diritti sempre nuovi e inesistenti. Tempo addietro, quando ancora cedevo all’ingenuità di frequentare i social, uno su Facebook mi rimproverò una precisazione esigendo per sé il diritto all’ignoranza. Naturalmente non esiste un diritto all’ignoranza, il diritto è qualcosa che implica il dovere di garantirlo. Uno ha la facoltà di restare ignorante, come di darsi una martellata su un ginocchio o di scalare l’Everest in infradito, ma nessuno ha l’obbligo di aiutarlo. Diritto è una parola bellissima, delicata, di cui avere cura. E anche il diritto all’aborto, che suona tanto ovvio, invece non esiste. Diritto è un termine che non compare nella legge 194 né nella Costituzione francese, al contrario di quanto si continua sventatamente a sostenere. Lo ha spiegato bene, inascoltata, Francesca Izzo, femminista colta e intelligente. La Costituzione francese parla di «libertà garantita alla donna di ricorrere a una interruzione volontaria di gravidanza»: una circonlocuzione sofisticata per un caso unico, di autodeterminazione della donna sul suo corpo. Siccome il diritto è una prerogativa individuale che vale per tutti, se si fondasse il diritto all’aborto della donna, le si potrebbe contrapporre il diritto dell’uomo a essere padre come quello del bambino a nascere. Sorpresa: parlare di diritto all’aborto è un atto di guerra all’aborto.