il Fatto Quotidiano, 15 giugno 2024
Eva Cantarella spiega il tragico destino di madri, mogli e figlie durante i conflitti: le più sfortunate sono rapite come “bottino” per i vincitori
Non era cosa dappoco, neppure per le donne, lo stato di belligeranza nel quale vivevano perennemente le città greche, impegnate in una incessante lotta di potere le une con le altre. La Grecia, cosa che tendiamo a dimenticare, non fu mai una nazione. Era un insieme di città (ciascuna delle quali era uno Stato a sé, con le sue istituzioni, tra le quali importantissimo – superfluo a dirsi – l’esercito).
Lontane per gran parte, per non dire pressoché per l’intera vita, dagli uomini, le donne vivevano una vita cittadina che aveva inevitabilmente conseguenze molto pesanti anche per loro. Com’è ovvio, a differenza dei maschi, esse non rischiavano ogni istante in guerra la vita fisica. Ma questo non impediva che la loro esistenza altro non fosse che il susseguirsi di scontri più o meno violenti fra appartenenti alle diverse organizzazioni cittadine.
Come scrivevo all’inizio, anche se tendiamo a dimenticarlo, insieme a tanti altri aspetti della vita che qui non abbiamo lo spazio per menzionare, la Grecia era una pluralità di poleis nate e cresciute su un territorio idealmente, e presumibilmente almeno alle origini, comune, all’interno del quale, peraltro, ciascuna aveva le sue istituzioni politiche e il suo esercito: ciascuna, insomma, era totalmente autonoma e riconosceva i diritti dei quali riteneva giusto che i suoi cittadini godessero. Sempre, beninteso, con le inevitabili diversità (che in questa sede non abbiamo tempo né modo di ricordare) legate al genere di appartenenza sessuale. Riconoscimenti di diritti che – superfluo a dirsi – erano incomparabilmente minori nel caso del genere femminile.
E questo ci porta inevitabilmente ad affrontare il discorso tutt’altro che irrilevante del bottino di guerra: sempre che la cosa facesse piacere al vincitore, infatti, al ritorno dalla guerra le donne dei vinti, o quanto meno parte di queste, lo seguivano nella sua patria e nella sua casa, dove era abitudine convivessero con le legittime consorti, con conseguenze anche psicologicamente non sempre facili. Una delle quali – se non altro per la celebrità dei suoi protagonisti – vale la pena ricordare: Ermione, figlia della ben nota Elena, ex regina di Sparta, e di Menelao, sposa Neottolemo, figlio di Achille. Una volta assegnata e accolta a Ftia, nella casa coniugale del figlio di Achille, considerava tuttavia inaccettabile la coabitazione con Andromaca, la peraltro inconsolabile vedova dell’eroe troiano Ettore ma, secondo la cosiddetta Piccola Iliade, concubina di Neottolemo, al quale diede anche un figlio, Molosso. E a nulla valsero le raccomandazioni che il marito aveva fatto a Ermione per spegnerne i furori della gelosia.
I termini del gioco erano noti per gli uomini: mogli, amanti a piacere a tempo indeterminato, accompagnatrici per periodi di imprecisata lunghezza. A stabilire i limiti maschili erano ovviamente gli uomini stessi.