Avvenire, 14 giugno 2024
Monteverdi, sempre nuovo da 400 anni
Monteverdi nostro contemporaneo. Il Claudio Monteverdi che la sua città, Cremona, celebra con un festival che si apre oggi. Orfeo, il titolo più pop del compositore. Quello che il 24 febbraio 1607 a Mantova rivoluzionò la storia. «Nostro contemporaneo, perché è stato il Novecento a far diventare Monteverdi il “divino” Claudio. Dobbiamo aspettare il XX secolo per una vera e propria Monteverdi renaissance. Intendiamoci, l’amore, l’interesse per Monteverdi non è mai venuto meno, ma da parte di musicologi e studiosi». Lo dice un musicologo, uno studioso, Giuseppe Clericetti, che ha da poco pubblicato per Zecchini il volume Claudio Monteverdi. Miracolosa bellezza. «Il Novecento – racconta Clericetti, che presenterà il suo libro domani alle 16 al Teatro Ponchielli di Cremona per il Monteverdi festival – ha portato lo studio della prassi esecutiva nei madrigali, nel repertorio sacro e nel teatro. Ma ha soprattutto avvicinato al grande pubblico le opere del compositore».
Perché, Giuseppe Clericetti, un nuovo libro su Claudio Monteverdi?
«Indubbiamente la bibliografia su questo autore è vastissima. Con l’editore Zecchini abbiamo voluto allora cogliere l’occasione dei quarant’anni dalla pubblicazione del volume di Paolo Fabbri, che ancora oggi resta un punto di riferimento per tutti, per fare il punto su ciò che sappiamo su Monteverdi. Ci siamo interrogati sui problemi ancora aperti, facendo anche una sintesi di ciò che è uscito in questi quarant’anni, tra saggi e riviste specializzate. E abbiamo voluto farlo con una scrittura il più possibile divulgativa, non per specia-listi, ma accessibile a tutti, raccontando il contesto sociale, culturale e musicale dell’epoca in cui il compositore attuò la sua rivoluzione».
Cosa c’è di nuovo da sapere su Monteverdi?
«Il pensiero sulla sua opera. A partire dai testi, in particolare gli “otto più uno” libri dei Madrigali, per capire la sua poetica musicale. Nel mio libro ho ipotizzato un rapporto di Monteverdi con Rubens. Non ci sono documenti che lo attestino direttamente, ma penso sia impossibile che i due artisti, alla Corte di Mantova, non si fossero incontrati. Ho immaginato quello che Monteverdi aveva potuto vedere dell’arte di Rubens. Nella sua raccolta poetica Galeria lo scrittore Giovan Battista Marino racconta un quadro di Rubens, Ero e Leandro. E sappiamo che Monteverdi avrebbe dovuto scrivere un madrigale sullo stesso tema, un grande lamento sulla storia dei due amanti infelici. Un caso?».
E cosa c’è di Monteverdi che già conosciamo, ma che è sempre bene ricordare?
«La consapevolezza del cambio estetico che lui vive, uno dei più rivoluzionari di tutta la storia della musica. Sulla soglia del Seicento Monteverdi vive una rivoluzione che ha la stessa potenza dell’inizio della polifonia o di quella che si vivrà nel Novecento con l’esplosione della tonalità. Monteverdi riesce ad essere eccellente nella polifonia, dunque ancorato al passato, alla tradizione, e altrettanto convincente nel nuovo corso della storia con la sua opera. E a questo proposito va registrata la prima polemica musicologica. Perché il bolognese Giovanni Maria Artusi, compositore e teorico musicale, scrisse nel suo Delle imperfezioni della musica moderna che “Monteverdi contravviene alle regole”, parlando di crudezze e di licenze. Monteverdi gli rispose che “era possibile farlo”, ribadendo la sua teoria per la quale la musica doveva essere serva della parola».
Monteverdi o la Camerata dei Bardi? Chi inventò davvero l’opera?
«Monteverdi, non c’è dubbio. In quell’inizio Seicento in Italia c’era un grande fermento con i primi esperimenti del recitar cantando di Giovanni Caccini o Jacopo Peri. Esperimenti che temporalmente arrivano prima del 1607 dell’Orfeo, ma ciò che succede in questa partitura, l’Orfeo appunto, con la varietà di forme musicali che vengono usate per raccontare una storia, è la vera rivoluzione, è qualcosa di unico e segna davvero la nascita dell’opera come la consociamo oggi. Monteverdi a Venezia sarà protagonista anche della seconda stagione dell’opera, un’altra rivoluzione, quando questa forma d’arte da privata, da opera di corte, diventa pubblica, a pagamento, per il pubblico».
Chi fu Monteverdi. E chi è oggi?
«È interessante cercare di capire, attraverso le lettere, che carattere avesse Monteverdi. Sicuramente parlava dialetto lombardo, una persona alla mano. Dichiarava di non essere un grande letterato, con una certa dose di umiltà perché se guardiamo ai suoi lavori le sue scelte letterarie sono davvero raffinate Mi limito ad un esempio, alla scelta dei testi per il madrigale Il combattimento di Tancredi e Clorinda.
Monteverdi attinge alla Gerusalemme liberata del Tasso, ma sceglie anche parti della Gerusalemme conquistata, riscrittura fatta dallo stesso Tasso del suo poema nel 1593. Questa convinzione della grande cultura letteraria di Monteverdi mi ha spinto a un gioco puramente di fantasia, fantamusicologia. Mi sono immaginato i titoli dei libri che Monteverdi avrebbe potuto avere nella sua biblioteca. Classici della poesia, soprattutto i testi che poi mise in musica, ma anche il bizzarro Antonfrancesco Doni o Girolamo Parabosco, letterato e compositore. Non potevano forse mancare Aretino e Franco. E soprattutto i trattatisti musicali, da Vicentino a Zarlino, da Zacconi a Galilei padre. E chissà che non possedesse il libro più bello mai stampato, Le battaglie d’amore in sogno di Colonna».
La trilogia di Orfeo, Il ritorno di Ulisse in patria e L’incoronazione di Poppea… il Vespero della Beata Vergine, possiamo limitare Monteverdi a queste pagine?
«No, naturalmente. Queste sono opere fondamentali, senza dubbio. Ma se vogliamo addentrarci nel mondo di questo compositore dobbiamo partire dai libri dei Madrigali.
Musica raffinata e cameristica, ma allo stesso tempo vicina a noi e molto fruibile. Nell’ottavo libro Monteverdi propone una sorta di dizionario del madrigale, un catalogo di come questa forma si è evoluta nel tempo».
Quanto di sacro c’è nel Monteverdi “profano” di teatro e madrigali e quanto di teatrale nel Monteverdi sacro?
«Monteverdi è tra i primi ad utilizzare uno stile teatrale, profano nelle pagine sacre. L’esempio più alto e lampante è il Vespro della Beata Vergine, costruito come fosse un’opera sin dall’introduzione. Ed emoziona ogni volta che lo ascoltiamo, anche se non sappiamo dire che cosa è sacro».
In cosa Monteverdi fu innovatore?
«Nell’essere il più importante compositore che per primo mise in atto la nuova estetica del basso continuo e del canto monodico e solistico. Aprì una strada».
E in cosa è ancora moderno?
«Nella sintesi che seppe fare unendo mirabilmente parola e musica. Qualcosa che ancora oggi ci emoziona».
Come proporre oggi Monteverdi?
«Con l’approccio che ritengo si debba tenere per qualsiasi autore di qualsiasi epoca. Ogni epoca ha i suoi strumenti musicali e gli autori hanno scritto per quegli strumenti, dobbiamo allora essere consapevoli che se vogliamo ascoltare la musica così come gli autori l’hanno immaginata dobbiamo suonare Debussy su un pianoforte del 1910, Brahms su uno del 1870 e Mozart su uno del 1780. Altrimenti costruiamo falsi. E così per Monteverdi l’approccio non può essere che quello di proporlo su strumenti originali».