La Stampa, 14 giugno 2024
Margaret Bourke-White impavida testimone della storia
Una donna è appollaiata su uno dei grandi gargoyle a muso d’aquila del Chrysler Building, senza protezione, con la sua macchina fotografica. Sotto di lei il vuoto e i grattacieli di New York. Ha coraggio, determinazione e un carattere pronto a superare ogni sfida, tanto che riuscirà a stabilire il suo studio proprio al piano più alto dell’edificio. È Margaret Bourke-White, grandissima fotografa americana nata proprio oggi, il 14 giugno di 120 anni fa. E quella foto in bianco e nero è diventata un’icona. Come quella in cui ritrae la città appesa a un elicottero fra raffiche di vento fortissime.
Da oggi al 6 ottobre Camera – Centro Italiano per la Fotografia propone la mostra Margaret Bourke-White. L’opera 1930-1960: un percorso espositivo a cura di Monica Poggi che in 150 immagini ripercorre il lavoro e la vita della prima fotografa della rivista illustrata LIFE superando ogni tipo di barriera e confine. «Si dice spesso che fra artista e chi cura – racconta Poggi – ci sia una complicità. In questo caso c’è molto di più, una profonda gratitudine perché se oggi faccio questo mestiere lo devo alla lettura della sua biografia quando avevo 17 anni. Una donna straordinaria, emancipata, del tutto fuori dagli schemi».
Dopo il successo delle mostre dedicate alle pioniere della fotografia Eve Arnold e Dorothea Lange, ecco un’altra grande testimone delle trasformazioni del mondo.
Una leggenda come testimoniamo i suoi ritratti a Stalin e a Gandhi, i reportage sull’industria americana, i servizi realizzati durante la Seconda guerra mondiale in Unione Sovietica, Nord Africa, Italia e Germania, dove documenta l’entrata delle truppe statunitensi a Berlino e gli orrori dei campi di concentramento.
La prima sala ci porta fra i più grandi progetti del New Deal: la costruzione della diga di Fort Peck in Montana. Racconta allo stesso tempo la grandiosità della costruzione e la vita degli operai nelle baraccopoli intorno al cantiere, l’alluvione del fiume Ohio in Louisiana e la “conca della polvere” colpita negli Anni Trenta da una grande siccità.
«La mostra – prosegue Poggi – percorre l’evoluzione nel linguaggio di Bourke-White: i primi servizi sono dedicati alla città e all’industria. Poco per volta si sposta verso la dimensione umana. All’inizio il suo sguardo tende ancora al monumentale e ritrae gli operai come statue, poi pian piano diventa autrice che scava dentro le storie, sempre più empatica. C’è una doppia prospettiva nelle sue immagini: il soggetto e cosa gli sta di fronte. La diga e gli operai con le prostitute oppure i bambini al bancone che aspettano la mamma barista».
Dall’incanto per le fabbriche e i grattacieli sostenuto da una fiducia sconfinata nel progresso al viaggio in Unione Sovietica dove Stalin ha varato il primo piano quinquennale: grazie alla sua esperienza nelle acciaierie, Bourke-White è la prima la fotografa occidentale ammessa nel Paese. Dopo qualche anno riesce persino a ritratte Stalin mentre abbozza un leggero sorriso. Aveva fatto cadere alcuni flash e le lampadine che rotolavano avevano scatenato la reazione istintiva di Stalin.
La fotografa è a Mosca anche nel 1941 quando le truppe tedesche bombardano la città: di notte si apposta sul tetto dell’ambasciata americana realizzando la sagoma della capitale illuminata dalle esplosioni.
Prosegue Poggi: «Non diceva mai di no. Grazie a un accordo fra il Pentagono e Life venne assunta dall’esercito dove pareva desse ordini a tutti, generali compresi, e nessuno la sopportasse più. Un aneddoto racconta che a volte in battaglia azionasse lei stessa il cannone per essere certa di sincronizzarlo con lo scatto della macchina fotografica».
Documenta poi i bombardamenti in Nord Africa, si trasferisce a Napoli testimoniando la liberazione e la vita che riprende verso la normalità.
È la prima fotografa a seguire le forze di aviazione statunitensi. Nel 1945 copre l’avanzata in Germania fino alla liberazione del campo di concentramento di Buchenwald dove ritrae sopravvissuti scheletrici, corpi ammassati e gli sguardi dei tedeschi obbligati a fronteggiare l’orrore.
«Racconta storie personali – prosegue Poggi – che diventano sempre più universali: quando ritrae Gandhi e il suo funerale ma anche Muhammad Ali Jinnah, sostenitore della nascita dello stato pakistano o i massacri fra hindu e musulmani».
Dopo i reportage in India, Pakistan e Corea racconta il tema del razzismo e delle segregazioni razziali in Carolina e in Sudafrica.
Costretta ad abbandonare la fotografia a causa del morbo di Parkinson, affronta anche la malattia come una sfida e si dedica alla sua autobiografia pubblicata nel 1963. Muore nel 1971.
Fino al 21 luglio la Project Room di Camera ospita Il giorno dopo la notte personale di Paolo Novelli (Brescia, 1976) a cura del direttore artistico del Centro Walter Guadagnini che spiega: «Se Bourke-White è una finestra aperta sul mondo, il lavoro di Novelli è l’esatto opposto. Un percorso intimo sulle finestre chiuse. Sono due modi di vedere la soglia: attraversandola o restando al di qua». —