Corriere della Sera, 14 giugno 2024
Vite travolte dall’iniquità
In dubio pro reo : nel dubbio, giudica in favore dell’imputato. È un’indicazione al giudice, un invito messo per iscritto nel Digesto di Giustiniano, per la prima volta in una raccolta di questioni di diritto. In caso di incertezza, di mancanza di prove, di impossibilità di raggiungere un verdetto di inequivocabile colpevolezza, il giudice deve accettare il rischio di assolvere un reo piuttosto che condannare un innocente. Queste dovrebbero essere le basi non solo del diritto, ma anche del senso comune, perché potrà sembrare impossibile da credere oggi, ma le leggi altro non sono (altro non erano) che l’espressione del senso comune. Non di un senso comune spaventato, inquisitorio e complottista, ma di un senso comune che aveva la necessità di normare il vivere quotidiano tendendo all’equità. Giustiniano commissionò il Digesto non perché non vi fossero leggi, ma perché ve ne erano e andavano raccolte e ordinate.
Francesca Di Stefano e Giulio Golia in questo libro (Mostri di Ponticelli, Piemme, ndr) raccontano la vicenda di tre ragazzi di un quartiere della periferia di Napoli arrestati, negli anni Ottanta, per il rapimento e l’omicidio di due bambine. Erano innocenti, ma sono stati condannati all’ergastolo. E da innocenti hanno scontato 32 anni di carcere. Non è tutto, perché la vicenda dei «Mostri di Ponticelli», così la stampa ha sin da subito nominato il caso, va oltre il madornale errore giudiziario, quello in cui si poteva fare meglio quel che si è fatto peggio. No, qui c’entra il male della nostra quotidianità, il male che viviamo sulla nostra pelle, ma più spesso a distanza di sicurezza. Lo vediamo, lo notiamo, però finché non colpisce direttamente, si fa finta di niente. Il tormento, a cui forse avremmo dovuto prestare attenzione proprio quando non eravamo coinvolti, come un tarlo assale. Ma poi si passa oltre perché vincono la sete di vendetta (non di giustizia), l’ottusità dei media, l’inconsapevolezza, e direi l’incoscienza, con cui si rincorre una certa fama. A tutto questo si aggiunge il cancro atavico che ammala le nostre comunità, quella criminalità organizzata che passa su tutto e tutti, che usa tutto e tutti pur di salvaguardare i propri affari.
Leggendo questo libro vi renderete conto di essere totalmente immersi in una tragedia, una tragedia della classicità. Non c’è luce. Non c’è speranza. Non c’è aiuto, se non quello che arriva da sofferenti. Ho conosciuto molte delle persone che si sono accostate ai ragazzi di Ponticelli – Giuseppe La Rocca, Ciro Imperante e Luigi Schiavo – e tutte sentono un dolore dentro, un dolore misto a paura, per l’ingiustizia subita da tre colpevoli di nulla e per la consapevolezza che a ciascuno può capitare di rimanere intrappolati nel «processo».
Spero non starete pensando: «No, a me non può accadere, conosco tante persone che potrebbero testimoniare sulla mia buona condotta. No, decisamente a me non può accadere».
Ne siete certi? Lo sapete che nello stesso anno in cui Giuseppe La Rocca, Ciro Imperante e Luigi Schiavo sono stati accusati di rapimento e omicidio è stato arrestato Enzo Tortora? Lo sapete che le indagini erano gestite dalla stessa Procura? Sapete chi è Enzo Tortora? Sapete chi era Enzo Tortora? Probabilmente, in quel periodo, uno dei volti più noti della televisione italiana, e quindi d’Italia. Uno degli uomini più conosciuti, ammirati, amati e invidiati del nostro Paese. Sapete quante persone avrebbero potuto testimoniare sulla rettitudine di Tortora? E credete davvero che, in un processo penale, quello che conta sia la considerazione che di voi ha chi vi conosce e vi stima?
Era il 1983
I tre giovani vennero accusati di omicidio
nello stesso anno in cui fu arrestato Enzo Tortora
I ragazzi di Ponticelli ed Enzo Tortora, per vie diverse e diversi accadimenti, sono stati travolti dalla stessa giustizia iniqua, distratta, sbrigativa, superficiale e infine colpevole. Una giustizia che rispondeva nel modo sbagliato alla domanda sbagliata. Una giustizia, soprattutto, che agiva velocemente, perché il desiderio di vendetta andava alimentato, continuamente.
Sono passati quarant’anni, ma le cose non sono cambiate. La velocità con cui ormai approcciamo tutto, dai rapporti con le persone che abbiamo intorno, alle modalità che scegliamo per informarci, spesso non ci consente di comprendere il momento presente. Abbiamo bisogno di fermarci, di immergerci in qualcosa di compiuto, che abbia basi solide, che esprima uno o più punti di vista, che abbia una finalità, che sia anche coraggioso. Fermarsi per ragionare, e l’unico modo per farlo davvero è leggere libri i cui autori, già nella scelta dell’argomento, nell’uso delle parole e della sintassi, restituiscono una lettura con cui confrontarci. E il senso critico matura attraverso il confronto in una dialettica che richiede tempo, non nell’adesione istantanea a un punto di vista.
Tre ragazzi di un quartiere della periferia di Napoli arrestati, negli anni Ottanta, per il rapimento e l’omicidio di due bambine. Erano innocenti, ma sono stati condannati all’ergastolo. E da innocenti hanno scontato 32 anni di carcere. Punto. Storia finita. Quel che è stato è stato. Ma sarà davvero così? Ovviamente no, perché ci sono tre uomini che oggi pretendono che la loro innocenza sia scritta in una sentenza. E insieme a loro, a pretenderlo siamo in tanti. Scrivere sui «ragazzi di Ponticelli» è necessario e fondamentale, perché necessario e fondamentale è pretendere che chiunque possa intervenire per arrivare a una revisione del processo senta la necessità di farlo. Adesso.
Ogni libro è testimonianza. Quando la nostra indignazione si sarà sedata, quando gli interventi di chi ha a cuore questo caso dovessero perdersi nel tempo o nel frastuono di un dibattito sempre distratto, resteranno le parole scritte. Proprio come quelle che state per leggere.