Corriere della Sera, 14 giugno 2024
Il fratello di Pertini che morì nel lager. Lo Stato non paga: «Non si sa se soffrì»
«Questo è il destino, cara Oriana, il destino! Perché sono stato a Flossenbürg, e ho fatto i calcoli, e ho scoperto che nello stesso momento in cui alla testa dei partigiani inneggiavo alla libertà riconquistata in Milano… alla stessa ora dello stesso giorno… 25 aprile 1945... mio fratello veniva fucilato nel campo di Flossenbürg...». Nel 1973, il futuro presidente della Repubblica Sandro Pertini, intervistato da Oriana Fallaci parlava così del fratello Eugenio, finito in un campo di concentramento nazista e ammazzato durante una «marcia della morte».
Ora, a quasi 80 anni da quell’omicidio, Diomira Pertini – la figlia di Eugenio – ha fatto causa alla Germania chiedendo un risarcimento danni di circa 250 mila euro. Risarcimento che, se il giudice le darà ragione, non verrà pagato dai tedeschi ma dal Mef con i soldi del Fondo per le vittime dei crimini nazisti istituito dal governo Draghi nel 2022 e poi esteso (a 61 milioni di euro) dall’attuale governo. La causa civile si è aperta a maggio, in tribunale a Genova. E agli atti del procedimento ci sono i resoconti di diversi testimoni, oltre che di Sandro Pertini e di sua nipote. Proprio Diomira Pertini, che oggi ha 90 anni e abita a Verona dove è presidente dell’Aned, l’associazione dei deportati, racconta del padre, di quando entrò nella Resistenza come reazione alla notizia (falsa) che il fratello fosse stato fucilato, e del suo arresto. «Mangiavamo sempre al solito ristorante di Genova... Io comincio a fare i capricci perché papà mi aveva promesso una bambola ma a interrompere le mie lagne fu un uomo in divisa: era una SS. Gli punta la pistola, intimandogli di seguirlo». Il fratello del futuro presidente della Repubblica venne portato in una sede delle SS e torturato ma, di fronte al rifiuto di fare i nomi degli altri partigiani, fu trasferito a Bolzano e da lì al campo di concentramento di Flossenbürg dove morirà l’anno seguente.
Ora arriva la causa civile, per chiedere la condanna della Germania e l’accesso al Fondo. Sono 1.350 i procedimenti intentati in questi ultimi anni dalle poche vittime dei crimini nazisti ancora in vita o dai loro eredi. E se la Germania neppure si presenta in aula, è l’Avvocatura dello Stato italiano a opporsi sistematicamente ai risarcimenti, chiedendo ai giudici di respingere le richieste o quanto meno di ridurle il più possibile, accampando i motivi più disparati: dalla prescrizione alla mancanza di testimonianze dirette, fino a mettere in discussione la competenza dei tribunali italiani. Le prime sentenze sono già arrivate: i tribunali stanno dando ragione alle vittime, ma l’Avvocatura fa ricorso e senza una sentenza definitiva il Mef non paga. È ciò che sta accadendo anche a Diomira Pertini, che ha citato la Germania per la deportazione, le condizioni inumane e i lavori forzati cui fu sottoposto il padre. L’Avvocatura si oppone sostenendo che non sono dimostrate le sofferenze patite nel campo di concentramento (come se non bastasse il nome, Flossenbürg, per evocare uno dei lager più duri e spietati della storia del Terzo Reich) e le modalità della morte.
«Anche se sono trascorsi 80 anni, per tutte le vittime e i loro familiari rivivere gli atti criminali commessi dai nazisti con le deportazioni e gli eccidi, significa riaprire ferite dolorose», spiega l’avvocato Cristina Florean, che assieme al collega Walter Bissoli assiste Diomira Pertini nella causa contro la Germania.
«Mettere in discussione le sofferenze patite da chiunque sia stato recluso a Flossenbürg, o andare a sindacare se sia stato o meno ucciso con un colpo di pistola piuttosto che sia morto di stenti, mi sembra assurdo. È come se lo Stato si arrampicasse sugli specchi per rinviare il più possibile il momento in cui il ministero sarà chiamato a risarcire».