la Repubblica, 14 giugno 2024
Intervista a Carlo Ginzburg
uesta volta è Carlo Ginzburg ad anticipare la domanda sul padre, pur essendo stato sempre poco incline a parlarne. Perché è impossibile intervistarlo su un gigante della storiografia quale Marc Bloch senza passare attraverso la figura di Leone Ginzburg, che sembra rispecchiare in perfetto parallelismo alcune scelte esistenziali e la fine tragica del fondatore delle Annales. Entrambi ebrei e studiosi eminenti. Comune l’impegno nella Resistenza, comuni l’esperienza del carcere e le torture subite dai nazisti, fino alla morte nel 1944, a distanza di pochi mesi l’uno dall’altro. Bloch fucilato dai tedeschi il 16 giugno di ottant’anni fa, Ginzburg morto il 5 febbraio in carcere in conseguenza delle ferite inflitte dalle SS. «Sono stato sempre consapevole di questa corrispondenza», dice ora Ginzburg, uno degli storici che più s’è confrontato con la rivoluzione storiografica di Bloch.
A dicembre parteciperà al grande convegno di Lione organizzato da Suzette Bloch, la nipote che cura l’eredità intellettuale dell’illustre nonno. È sempre Suzette a riconoscere a Ginzburg l’originalità di una interpretazione – la continuità tra leRiflessioni sulle false notizie della guerra e il grande affresco de I Re taumaturghi – ripresa più di recente da studiosi italiani che però hanno omesso la fonte originaria. «Nemo propheta in patria», scherza lui, senza dare troppa importanza. Bloch storico delle fake news ci conduce all’evo contemporaneo, segnato dall’onda nera e dalla manipolazione delle folle. «Sono sempre stato contrario ad allargare la nozione di fascismo a un contesto diverso dall’esperienza passata», dice Ginzburg. «Ma ora ho cambiato idea. E non esito a dire che il fascismo ha un futuro».
Come avvenne il suo incontro con Bloch?
«Per caso. A diciotto anni ero entrato alla Scuola Normale, incerto sulla strada da prendere. Ma prima un seminario di Delio Cantimori su Burckhardt e poi il colloquio annuale con Arsenio Frugoni mi spinsero verso gli studi storici. Fu proprio Frugoni a propormi Les Annales come tema del colloquio. Ma cosa sono?, pensai tra me e me. Non sapevo niente. Trovai la collezione completa della rivista in una biblioteca pisana vicino a quella universitaria, dove mi imbattei per la prima volta anche inLes Rois Thaumaturges :era la prima edizione del 1924».
Conosceva la storia personale dello storico partigiano?
«Sì, avevo lettoApologie pour l’histoire,il libro sul mestiere di storico scritto negli anni di prigionia e poi pubblicato postumo nel 1949. Gli studi, la Resistenza, la morte per mano nazista. Tutto mi riconduceva a mio padre. Quello con Bloch era un rapporto evidentemente filtrato dalla figura paterna.
Diciamo che fu la scintilla iniziale, da cui è scaturito un dialogo che non si è mai spento».
Poi cosa accadde?
«Les Rois Thaumaturges fu una vera folgorazione. Leggendo quel libro capii che dovevo cercare di imparare il mestiere dello storico. Ero incerto tra la storia dell’arte, la storia della letteratura, la linguistica e la filosofia. Poi mi sarei mosso liberamente tra queste discipline. Ma il momento decisivo è stato l’incontro con Bloch».
Che cosa la colpì?
«Lì per lì fu la sorpresa: non pensavo che uno storico potesse scrivere un libro del genere. Poi negli anni è intervenuta una consapevolezza più matura. E già nel 1965, recensendo una raccolta di saggi di Bloch pubblicata in Francia, segnalavo il duplice piano in cui si muoveva Bloch. I Re Taumaturghi era dedicato a una gigantesca fausse nouvelle,ossia alla credenza secondo la quale i sovrani di Francia e di Inghilterra nel Medioevo avevano il potere di guarire appestati e scrofolosi. Che cosa fa Bloch? Da una parte demistifica le false credenze mostrandoci la genesi e le finalità politiche perseguite dai re – questo è il piano volterriano – dall’altra analizza le rappresentazioni collettive che rendevano possibile la fede nel potere taumaturgico dei sovrani. Non a caso l’epigrafe del volume è tratta dalleLettere persiane di Montesquieu: “Ce roi est un grand magicien”,questo re è un grande mago. La combinazione di queste due prospettive mi ha segnato per sempre: tutta la mia ricerca ne porta segni evidenti, anche nella esplicita distinzione tra vero, falso e finto».
Sin dal suo primo libro, “I benandanti”, rende omaggio allo storico francese.
«Sì, distinguevo alla sua maniera tra comparazione storica e comparazione etnografica. Ma inStoria notturna sono andato oltre, analizzano sia il complotto che la fede nel complotto. Più in generale posso dire che la sua lettura ha segnato la mia traiettoria verso la microstoria: ne
I Re Taumaturghi Bloch analizza una serie di casi e la microstoria nasce proprio come approfondimento di singoli casi apparentemente marginali. Anche la sua interpretazione delle testimonianze – contro la volontà di chi le ha prodotte è un metodo destinato a produrre frutti fecondi».
Lei è stato il primo a mettere in relazione “I Re Taumaturghi” con l’esperienza della Grande Guerra dove Bloch si arruolò volontario nel 1914.
«Mi fu abbastanza evidente la relazione diretta e la esplicitai nel saggio uscito su Studi Medievali nel 1965, e poi nell’introduzione all’edizione einaudiana del 1974. Tre anni dopo la fine della guerra, Bloch pubblica uno scritto lucidissimo intitolato Réflexions d’un historien sur les fausses nouvelles de la guerre, che può essere considerato una introduzione aLes Rois Thaumaturges. L’esperienza bellica da sergente di fanteria l’aveva messo a contatto con le notizie false che fiorivano incontrollate nelle trincee. E la sua grande intuizione da storico fu quella di considerare le notizie false non come un corpo estraneo da espungere, ma come oggetto stesso della ricerca, rivelatrici di una mentalità profonda che è interesse dello storico analizzare. Scrivendo I Re Taumaturghi Bloch rivelò questa storia più profonda, rivoluzionando gli studi storici».
Dobbiamo quindi ricavarne che il vissuto dello storico ha un’influenza fondamentale sulla sua opera?
«Sì, ma non tutti gli storici che vissero la Grande Guerra furono poi capaci di scrivere I Re Taumaturghi! Questa relazione tra l’esperienza di vita e il mestiere di storico ci porta al rapporto tra presente e passato che in Bloch fu molto critico e controllato. Anche da questo punto di vista il mio dialogo con lui è continuato nel saggio Le nostre parole e le loro.Nell’Apologia per la storia Bloch scrive scherzosamente che i chimici per loro fortuna hanno a che vedere con elementi che non si autodenominano, mentre gli storici si devono confrontare con le parole degli attori, che spesso rimangono immutate anche quando si riferiscono a una realtà che cambia. Negli anni Trenta Bloch si chiese se fosse lecito usare il termine “classe” nel senso di “classe sociale” a proposito del Medioevo, quando aveva tutt’altro significato. Nel suo libroLa società feudale Bloch usò nel titolo termini (“società”, “feudale”) che nel Medioevo avevano un altro significato o non esistevano: ma nella trattazione insiste sulla prospettiva degli attori messi in scena. La ricerca storica è il risultato di un dialogo costante tra noi e loro che non ha mai fine».
Tra le novità introdotte da Bloch è anche un approccio multidisciplinare.
«Bloch paragona lo storico a un orco affamato, nulla di ciò che è umano gli è estraneo. E ovviamente in questa immagine sono annullate le distinzioni disciplinari.
Warburg faceva del sarcasmo sui doganieri che controllano chi trapassa i confini delle diverse discipline. Ma il problema dell’approccio multidisciplinare è che in molti ne parlano, ma in pochi lo praticano veramente».
Il metodo tracciato da Bloch è utile per comprendere l’evo contemporaneo delle fake news?
«La menzogna a scopo politico è una storia vecchissima. Ciò che la rende nuova è la velocità impressa dalla tecnologia.
Oggi questa vecchia storia nuova s’incrocia con un altro fenomeno mai tramontato che è la manipolazione delle folle.Ce roi est un grand magicien… Le modalità di questa dipendenza cambiano a seconda delle società e delle epoche. Ma chi pensava che la manipolazione delle folle appartenesse al passato deve ora ricredersi».
Posso chiederle i suoi sentimenti più personali – da figlio di antifascisti – rispetto all’onda nera che avanza in Europa? E rispetto a una classe politica italiana che non taglia le radici con il fascismo?
«Provo sentimenti dolorosi: non mi sarei mai immaginato di vivere in un’Italia come questa. Io mi sono sempre rifiutato di usare la parola fascismo al di fuori del suo contesto specifico: la tesi del fascismo eterno non mi ha mai convinto. Ma è stata la prima volta a Chicago, durante la campagna elettorale di Trump, che ho pensato: questo è fascismo. E se a questo punto qualcuno mi obiettasse che il fascismo è un fenomeno circoscritto al secolo passato, io non lo accetterei.
Il fascismo ha un futuro, proprio per questa plasmabilità delle folle che persiste. È un pensiero angosciante».