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 2024  giugno 13 Giovedì calendario

Come si diventa alcolisti?

Non riesco a non bere la sera. L’alcol è l’unica cosa che mi fa scendere dalla giornata. Perché quando si sta male bisogna dimenticare e quando si sta bene festeggiare. Di questo parlavamo un giorno nell’area cani con un’amica, quando lei mi ha detto che da otto anni era pulita. Fino a quel momento, non avevo visto in lei niente che la distinguesse da me. Mi ha raccontato che, per aggirare i controlli, era arrivata a versare il vino nelle borracce di calcio dei figli per poter fingere di bere acqua durante le loro partite.
La storia mi ha doppiamente colpita perché il giorno prima ero andata a vedere Memory di Michel Franco che inizia proprio con la protagonista che festeggia, insieme a un gruppo di alcolisti anonimi, otto anni senza bere alcol. Anche la mia amica partecipa ancora alle riunioni di AA: «Il gruppo mi ha salvato la vita», mi ha detto prima di invitarmi a un loro incontro; ne fanno uno aperto al mese oltre ai tre a settimana per chi ne fa parte.
Sono quasi le sette di sera di un venerdì di maggio. A tratti piove, e ci si veste ancora a cipolla. Intorno alla parrocchia di Santa Maria del Suffragio di Milano la gente si incontra per bere in uno dei tanti bar aperti nella zona negli ultimi anni. A pochi metri un gruppo formato da una cinquantina di persone si saluta, ride e si abbraccia con intimità. In una città in cui la socialità sembra essersi trasformata in aperitivi, è strano vedere tanta gente riunirsi senza avere l’alcol come collante.
Si entra ridendo nella stanza; c’è un grande tavolo rettangolare su cui si appoggiano acqua, tè freddo, bicchieri di plastica e diversi cestini con caramelle di tutti i tipi: masticabili, per la gola, gommose, al latte e miele. Il rumore dello scarto delle caramelle accompagnerà i racconti come un sottofondo musicale. Un filo d’aria fresca entra da una finestra socchiusa. Una spirale di sedie concentriche avvolge il tavolo. C’è gente in piedi, altri si stringono per condividere la sedia, alcuni arrivano in ritardo, chiedendo scusa e salutando dalla porta. Ho da subito la sensazione che potrebbe entrare qualcuno che conosco perché è pieno di gente che potrei conoscere.
A capotavola il segretario (viene eletto una volta all’anno tra chi si candida) e il vicesegretario (stessa procedura) si dicono felici per la quantità di persone presenti e danno il via ai passaggi di rito: la lettura della dichiarazione di anonimato, dei 12 passi di AA e delle tradizioni, per poi passare al “giro del benessere”. Ogni membro si presenta pronunciando il proprio nome, si riconosce come alcolista e dice di essere «nelle 24 ore». Perché lo scopo qui è andare avanti un giorno alla volta e festeggiare ogni traguardo.
«È da tre settimane che sono pulita», dice una donna abbronzata con una maglietta bianca attillata. I saluti continuano finché un ragazzo sulla trentina dall’apparenza introversa dice: «Sono giorni difficili, ho pensato di essere più furbo degli altri, di non avere più bisogno e di potercela fare da solo, ma sto vivendo delle ricadute a cascata». Ha la voce rotta, non solleva lo sguardo. «Un po’ di vino, cosa vuoi che sia, mi sono detto; so gestirlo. E non ho fatto quello che so avrei dovuto fare: prima di alzare il gomito, alzare la cornetta». La sua testimonianza spacca il clima gioioso e ricorda perché siamo qua. «Oggi hai bevuto?», gli chiede un ottantenne con l’aura da leader. «No», risponde lui schivando il suo sguardo. «Questo è quello che conta. Oggi l’hai scampata».
Le parole passano e l’aria dentro la stanza si addensa. Continua ad arrivare gente. Stacco un attimo la testa dalle voci, e non riesco a smettere di chiedermi perché alcuni sì e altri no. Quando si passa dal bere solo di sera al bere anche a mezzogiorno, e così via; e perché? Penso a tutta la gente che conosco che beve sempre, e penso anche a me che non riesco a non bere alcol la sera. La mia amica racconta che nel suo caso è stato un crescendo quasi impercettibile. «A me, poi, il vino fa schifo», racconta. All’inizio lo faceva prima di uscire a cena per essere più simpatica (difficile immaginarla più simpatica), poi ha cominciato in altri momenti della giornata fino ad arrivare a bere due birre olandesi 8.6 da 900 ml (con 10,5 per cento di gradazione alcolica) alle 7 del mattino prima di andare a lavorare. «Le bevevo per terra, come una disperata». Per lei, il punto di non ritorno fu il giorno in cui non tornò a casa a dormire. Disperata, la famiglia la cercò tutta la notte. La mamma la aspettò sotto casa e al suo rientro le diede uno schiaffo di fronte ai suoi figli – già grandi – come fosse una bambina. Quella scena non le lasciò scampo. Più volte ripete di essere stata graziata. Dal primo giorno in cui è arrivata in AA non ha più toccato alcol. Neanche una ricaduta.
Dietro di me, un ragazzo dice «sono Filippo, sono alcolista. Sono stati giorni difficili, in cui non ho praticamente dormito». L’aria si fa ancora più densa. All’improvviso un sorriso contrasta le parole che gli escono dalla bocca: «Sono diventato papà», dice, e scoppia un applauso. Ha una maglietta polo blu, le scarpe scamosciate, racconta che prima viveva nel futuro, immaginando quello che sarebbe diventato, quello che avrebbe voluto; soldi, una nuova macchina, più successo. Oggi pensa ai pannolini e ha capito perché il gruppo funziona. I medici studiano, ma non sanno cosa si prova. «Mentre parlavo con un gruppo di mamme dei problemi di sonno dei neonati, mi sono reso conto perché ci si sente così bene qua. Qua non bisogna nemmeno parlare». La sensazione di essere al sicuro sembra trasversale. C’è chi dice che quando si sta male basta chiamare: «Neanche ti chiedono come stai, lo sanno già».
Il bisogno di sapere di prima mano quello di cui si parla e quello che sentono gli altri, infatti, diede vita all’associazione nel 1935, quando due alcolisti, l’agente di borsa di Wall Street Bill W. – che nel 1999 è stato inserito dal Time tra le cento persone più importanti del secolo – e il medico chirurgo dell’Ohio Bob Smith si resero conto che condividendo le loro esperienze si aiutavano a vicenda e riuscivano a mantenersi lontani dall’alcol. Con un approccio molto pragmatico e non moralista, scoprirono che un alcolista che ha smesso di bere ha più capacità di aiutare un alcolista che ancora beve. Indicando la strada per non bere, chi aiuta aiuta e si aiuta al contempo, mantenendo e consolidando la propria sobrietà.
Chiedo chiarimenti a una signora sulla ottantina alla mia sinistra che porta due grandi orecchini color oro e profuma di fiori. A voce bassa e coprendosi le labbra con la mano, mi spiega che la riunione aperta prevede la presenza dei famigliari e che esiste anche un gruppo ad hoc per loro: Al-Anon. Ne esiste uno anche per i figli adolescenti che si chiama Alateen. Quella signora, mi ha detto la mia amica, è stata la prima persona che ha conosciuto qua dentro: «Il primo anno, durante tutto agosto, non ho fatto che chiamarla. Più volte al giorno».
Cerco di capire quali siano le loro professioni, ma tra gli alcolisti anonimi vale la regola dell’anonimato. Tutti siamo uguali: la casalinga, il manager, il giudice. Riesco lo stesso a scoprire che c’è un giornalista, un macellaio, un’impiegata di banca, un medico, uomini e donne in pensione. La frenesia di una città che corre veloce, l’ansia della performance, la frustrazione, la carriera, le insicurezze, la rabbia, quello che manca, sono sentimenti che ritornano spesso nei racconti, e in cui ciascuno si può ritrovare. A guardarlo dall’alto, potrebbe sembrare un mondo parallelo. A pochi passi da tutti i bar che stanno là fuori, l’immagine è molto forte. Fa uno strano effetto pensare che a metri di distanza, alla stessa ora in cui un gruppo eterogeneo di persone si incontra per combattere una dipendenza diventata malattia (in totale autogestione e senza lo sguardo di medici, psicologi, ecc), altri gruppi partecipino al rito della socialità di un posto che, tra le sue componenti principali (e immancabili), ha proprio l’alcol. Sono due mondi connessi, più di quanto possa sembrare. Si potrebbero invertire le persone senza percepire la differenza.
Un uomo che sembra conoscere tutti si affaccia alla porta con un ragazzo giovane per mano. «È qua per la prima volta, è inglese, aveva bisogno», dice presentandolo agli altri. Alto, capelli fitti, il ragazzo non sembra capire le parole di saluto e rimane in un angolo senza parlare per tutta la serata. L’approccio internazionale del gruppo è una delle cose che più mi hanno colpito. Mi spiegano che in ogni angolo del mondo c’è una stanza – “stanza” è una delle parole che mi rimangono impresse, perché richiama l’idea di un rifugio al sicuro del rumore della vita – di AA pronta ad accogliere chi ha bisogno. Gli alcolisti anonimi sono presenti in oltre 160 paesi, con più di 100 mila gruppi di autoaiuto. Il mio vicino mi dice di essere tornato a viaggiare proprio e soltanto grazie a questo. «Ho trovato il coraggio di andare a Londra dopo anni che non viaggiavo perché sapevo che se avessi avuto bisogno ci sarebbe stato qualcuno a cui chiedere aiuto, una porta a cui bussare». Esco con la sensazione di avere visitato un’altra realtà, vicinissima alla mia.
Il giorno dopo incontro la mia amica alle prese con una crisi di adolescenza di Pepe, il suo cane. «È diventato imprevedibile», dice, «lo devo tenere d’occhio continuamente». Parliamo della riunione della sera prima. Le confesso che ho bevuto il mio primo aperitivo verso i quaranta. Ride, come ogni volta che ne abbiamo parlato. Prima quasi non bevevo, le dico, e mi si è aperto un mondo che fino ad allora era rimasto parallelo: quello della liberazione. Che bello poter non pensare continuamente, abbandonarsi per qualche ora, anche se i pensieri il giorno dopo raddoppiano. Per chi beve, il gesto non ha a che fare soltanto con il senso del gusto (a me piace tutto, dal negroni al whisky) ma anche con un rischio che è intrinsecamente affascinante e pericoloso, quello della perdita del controllo. Conosco una donna che non beve più proprio per questo: oltre a non amare il sapore dell’alcol, non ama perdere il controllo.
Richiamando il suo cane, la mia amica mi dice che secondo diversi studi tra le cause dell’alcolismo c’è la genetica. La probabilità di sviluppare una dipendenza da alcolici, infatti, è  fino al 30 per cento più elevata tra i figli degli alcolisti. Potrebbe anche essere una questione di emulazione perché il contesto famigliare ha il suo peso: anche i figli di genitori adottivi con problematiche di alcolismo hanno una probabilità maggiore di sviluppare la dipendenza. Nel 2018 uno studio del gruppo di lavoro Substance Use Disorders della Washington University School of Medicine a St. Louis, pubblicato sulla rivista Nature Neuroscience, ha individuato un gene, l’ADH1B, che regola quanto rapidamente il corpo possa metabolizzare – e quindi “reggere” – l’alcol. Lo studio – che ha coinvolto quasi 15 mila alcolisti e quasi 38 mila individui senza dipendenza, il cosiddetto gruppo di controllo – ha dimostrato che negli alcolisti è presente una versione del gene che di fatto facilita il consumo di grandi quantità di alcolici. Ci sono, poi, i contesti sociali ed economici, le pressioni, i social media. Di sicuro c’è che non è una scelta, come si pensava una volta.