il Fatto Quotidiano, 13 giugno 2024
Padellaro ricorda Berlusconi
L’ultima volta che ho sentito Silvio Berlusconi è stato qualche giorno prima della sua scomparsa. Gli avevo inviato gli auguri di pronta guarigione attraverso Melania Rizzoli e Vittorio Feltri. Lui chiamò per ringraziarmi e, con una vocina sottile, si congedò con una strana domanda: “Mi dica, dottor Padellaro, noi abbiamo mai avuto modo di lavorare insieme?”. Risposi, naturalmente, che no, non avevo mai lavorato per lui. “Ah, che peccato”, fu il suo commiato e forse l’estremo tentativo di sedurmi (ma non più di comprarmi).
Tra le tante domande che mi ero fatto dopo una cena in sua compagnia, di cui parlerò ancora, ce n’era una insistente: perché insieme al vino che mi aveva versato e all’olio che gli avevo passato non ero riuscito a distillare neppure una goccia di quella indignazione con cui avevo nutrito una valanga di articoli contro la sua persona? Avrei forse dovuto avvitarmi in un comizietto del tipo: lei è stato la rovina dell’Italia? Tutto vero ma pure, in quel contesto, un tantino ridicolo (ho ben presente la frase di Marshall McLuhan secondo cui “l’indignazione morale è una tecnica utilizzata per dotare l’idiota di dignità”). Se ho considerato Berlusconi un nemico, e se mi sono arruolato volontario nell’esercito che lo ha combattuto per un ventennio non è stato tanto per l’uso del parrucchino, dei tacchi rialzati o per l’insopportabile lagna anticomunista. E, neppure per la sua storia di tycoon privo di scrupoli e con il vizietto di ungere le ruote della legge e di chiunque si frapponesse alla sua voracità. Chiedo scusa ma considero il successo altrui, ancorché malfamato, un epifenomeno indicativo del contesto corruttivo nazionale. Perché, alla fine, ciò che salta agli occhi, ciò con cui dobbiamo fare i conti, ci piaccia oppure no, è l’impero che lui ha costruito, la fortuna che ha accumulato, il potere che è stato in grado di esercitare. Non ce l’ho particolarmente con ciò che Berlusconi è stato. Mi sono ritrovato sulla barricata opposta perché mi faceva (e mi fa) sinceramente orrore ciò che il berlusconismo ha provocato nella testa delle persone: “L’unico peccato che non mi perdono è avere costretto qualcuno a provare vergogna di se stesso” (Oscar Wilde). Molto diverso dal tradimento degli altri, infatti, è il tradimento di ciò che si pensa. Di ciò in cui si crede. Di ciò che si è, e non perché qualcuno ti stia torturando con scariche elettriche o minacci la vita dei tuoi cari. Certo, quasi sempre si tradisce per ottenere denaro, onori, successo. Poi, c’è chi rinnega il suo io solo per voluttà di sottomissione al suo dio. Per blandire, assecondare, adulare. Troppi ne ho visti strisciare in ginocchio, ed è questo che trovo insopportabile del culto di qualunque padrone. È un fatto estetico. Ricordo, tra i tanti, due incontri ravvicinati. Entrambi televisivi. Siamo nel 1997. Berlusconi mi osserva di sottecchi, il sorriso stampato del coccodrillo sornione che può decidere di sbranarti se solo non ti mantieni a distanza di sicurezza. Sprofondo nella cremosa poltrona di Porta a Porta e nelle mie incertezze. Non riesco a imprimere alle domande quel tono ironico, leggermente sfottente che mi ero ripromesso quando soltanto poche ore prima Bruno Vespa mi ha invitato al confronto televisivo. Gli chiedo conto delle accuse di corruzione e del suo rinnovato legame con i razzisti della Lega di Umberto Bossi (nessuno poteva sapere quanto un certo Matteo Salvini lo avrebbe fatto rimpiangere). Ne esco battuto. L’indomani sulla pagina web dell’Espresso vengo bersagliato da una grandinata di critiche e i più clementi scrivono che in televisione devono andarci quelli bravi. Mi era andata meglio nella primavera del 1994 quando la direzione di Tribuna Elettorale mi aveva chiesto se mi sentissi pronto a intervistare l’uomo da poco autonominatosi leader di un oggetto misterioso chiamato Forza Italia. Negli studi di Saxa Rubra l’imperatore del Milan e della emittenza privata mi viene incontro incipriato e soave. Pronto a giurare che, malgrado una diversa visione dei problemi del Paese, io sono uno dei suoi cronisti preferiti. Mi chiede se mi trovo bene all’Espresso e, senza curarsi della risposta, si dice convinto che le mie qualità professionali potrebbero essere meglio valorizzate se soltanto… I suoi occhi sono uno spot lampeggiante: bussa e ti sarà aperto. Arriva al sodo: “Dottore, potrei conoscere il contenuto delle domande che intende rivolgermi?” “Naturalmente no, presidente”. Il sorriso gli si affloscia come una gomma bucata. Teme, con qualche fondato motivo, che io vada a parare sui rapporti intercorsi tra il suo braccio destro Marcello Dell’Utri e i boss di Cosa Nostra. In studio sparo le mie cartucce, lui le schiva con lunghe tirate sul pericolo comunista in Italia. Terminata la registrazione sparisce in un codazzo di scorte e addetti stampa, senza neppure salutarmi. Adesso ai suoi occhi conto meno di zero.
Qualche anno più tardi, mentre sono in auto mi collegano in viva voce con Palazzo Grazioli: “Il presidente la cerca urgentemente”. Accosto immaginando il peggio. Quella mattina, tanto per cambiare, il Fatto Quotidiano sfoggia una copertina dal titolo quanto mai oltraggioso, non ricordo se sulle cene eleganti o su qualche nuovo reato emerso a suo carico. Infatti, la voce ha una tonalità irritata: “Direttore, avete superato il limite”. “Mi dica quale?”. “Avete scritto che indosso un parrucchino. È falso. La invito qui da me e l’autorizzo a verificare con le sue mani se i miei capelli sono veri o finti. Dopo di che mi aspetto delle pubbliche scuse”. Balbetto qualcosa ma lui ha già chiuso la conversazione con una risata. Vuole farci sapere che nulla lo sfiora, meno che mai i nostri titoli fiammeggianti. È forte di questo cinismo che si è impadronito dell’Italia e della testa di tanti italiani. Quella sera, al termine della cena di cui ho accennato, nel salutarlo gli dico: “Berlusconi, devo riconoscere che in fondo lei ha fatto la fortuna dei suoi amici, ma anche dei suoi nemici”. Sottinteso, anche quella del nostro giornale che durante il basso impero del Cavaliere ha macinato montagne di copie. E lui, mentre corre verso l’ascensore come una Cenerentola invecchiata prima che scocchino le fatali 23, l’orario giudiziario del suo rientro coatto a Palazzo Grazioli, farfuglia qualcosa come: “Sì, ha proprio ragione”. Mentre già scorrevano i titoli di coda e la parola Fine.