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 2024  giugno 12 Mercoledì calendario

Califano, il «papa» della Roma bruciata

Pubblichiamo il testo che Aurelio Picca leggerà venerdì 14 giugno a Milano. Lo scrittore sarà ospite della Milanesiana, ideata e diretta da Elisabetta Sgarbi, per una serata dedicata a Franco Califano. A seguire si terrà lo spettacolo-concerto Qualche estate fa. Vita, poesia e musica di Franco Califano, con Claudia Gerini & Solis String Quartet (Volvo Studio, ore 21). Nel suo «prologo letterario», Picca compie un viaggio sui luoghi di Califano e, tramite l’Intelligenza artificiale, realizza anche un’intervista immaginaria con il cantautore.

«Però, per te, inventai, la nevicata del ’56/ Questa città era candida, tutta pulita e lucida/ Era degna di te, che crescevi per me/ Com’eri bella...» (strofe canticchiate).
Er Gigante silenzioso come la neve. Er Califfo dentro una solitudine di carne. La carne che squarciarono al suo amico Francis Turatello, tirandogli fuori le budella.
Franco Califano era un ficaccio fedele alle amicizie e meno alle donne. Non ha mai rinnegato gli amici anche se erano criminali. Del resto una volta banditi e artisti patteggiavano entrambi per l’assoluto. Di donne ne ha avute tante, più delle canzoni che ha scritto, ma i solitari sono sentimentali, si innamorano. Lui questo non l’avrebbe mai confessato. Ne La nevicata del ’56 c’è la genetica della Roma andata, bruciata per sempre molto prima che lui morisse. C’è l’amore cercato e mai afferrato; l’amore non voluto. C’è il tempo della vita e delle stagioni disperse al bar. Ricordo quando, dopo poco uscito di galera, andai a un suo concerto. Pure là il bianco: vestito di bianco, con la camicia aperta in maniera rilassata per niente da coatto bensì da felino, e l’auto fuori sempre bianca: la Mercedes SL. Questo non lo so se era prima o dopo che andò a Nettuno a rifarsi il palato dal chirurgo plastico e subito prima di cenare entrò in bagno a tirare due strisce. Pure la bianca che gli aveva ridotto il naso a un mignolo, era bianca quanto la neve. Però mo’ basta di frignare.
Parto col mio amico Carlo Mucari che ha cantato per anni le canzoni di Franco nei locali, nei teatri, nelle piazze. Carletto che è stato l’Indiano, Tiger Jack, in Tex con Giuliano Gemma.
Andiamo a Ardea. «Ma qui non ci è mai vissuto il Maestro», continua a ripetermi Carlo mentre viro sulla Pontina. Infatti arrivati «qui» so già che si sono inventati una casa museo che pare un B& B con il portoncino, il balconcino e a fianco una targa dedicata all’ostetrica del paese. Penso: «Califano a combattere con una levatrice non ce lo vedo proprio». Mentre ci aggiriamo in una atmosfera di tufo, volsca, perché ad Ardea ci abitavano Camilla e Turno, Carlo tocca un blocco di tufo e fa: «Questo è vecchio parecchio». Penso: «Sì, ha appena tremila anni».
Califano ha inventato canzoni sul Ponentino del Belli senza saperlo. È stato sotto sotto l’ultimo ragazzo di strada, lui che non si sa bene dove è nato, lui che raccontava dei collegi dove non si sa chi l’aveva rinchiuso, lui che era «serio, già vecchio a vent’anni». Inutile citare le canzoni, quelle potete ascoltarle dove vi pare, però è corretto di’ che Er Califfo s’e preso dentro Gabriella Ferri, Corrado Amici, Lando Fiorini... Lui, il sangue della implacabile solitudine romana, il colpo secco di chi non la dà vinta, l’ha lanciato per tutte le strade. Il suo romanismo di quartiere, come canta a Sanremo nell’88 in Io per le strade di quartiere, plana in ogni dove. Milano ne fu inoculata; e Milano lo carica di sé.
Carlo attacca a citare: «Io sono stato Califano subito. Non ho bisogno di morire per diventare leggenda». Allora scappiamo al camposanto ma è chiuso. Oggi è martedì ed è chiuso. Per fortuna l’Indiano di Tex ha le foto. Ficco la capoccia tra le sbarre per cercare di vederlo. Nel frattempo mi aiuto con le foto del mio amico con il quale sono andato nei primi Ottanta da un produttore porno per cercare di fare un film d’autore e non certo porno. Ecco Califano col pizzetto da D’Artagnan. La gigantografia sul marmo è da ultimo concerto. Voleva riposare con suo fratello Guido e il nipote Fabrizio. Sopra alla foto c’è scritto a caratteri cubitali: «CALIFANO». Ripenso a quando lo incontrai di notte tra via Cicerone e via Valadier. Lui sta fisso davanti a una vetrina. Dietro c’è una Morgan. Amava tantissimo le Morgan. Sarà stato a contemplare un quarto d’ora.
Ora mi carico e grido: «Califfoooo, perché sei morto!?».
«Tesoro, è la vita che fa il suo corso. Ho vissuto intensamente, ho amato, ho cantato, ho scritto e ho vissuto ogni momento come se fosse l’ultimo. Alla fine, il corpo cede, ma l’anima resta. Le mie canzoni, i miei versi, quelli vivono ancora, nei cuori di chi mi ha amato e ascoltato. Ricorda, il Califfo non muore mai davvero».
Ma che fai, mi rispondi?
«Giganteeee, perché sei stato sempre solo!?».
«La solitudine è una compagna fedele per chi vive come me, sempre a rincorrere l’emozione, sempre alla ricerca di qualcosa di più. Ho amato tanto e tante, ma alla fine la vera compagnia è la musica, è la poesia. È vero, ho avuto molte donne, molti amici, ma la solitudine è come una vecchia amante: sa quando è il momento di farsi sentire e di farti riflettere. E poi, forse, non ero davvero solo: avevo sempre con me i miei pensieri, le mie storie, e quelle bastavano a riempirmi la vita».
«Maestroooo, in questa Roma che non si riconosce più, noi che dobbiamo fare!?».
«Roma è come una vecchia amante: ti seduce, ti tradisce, ti confonde. Ma noi romani, siamo fatti così, siamo testardi, siamo cocciuti. In questa città che sembra aver perso la bussola, dobbiamo ritrovare il nostro spirito, la nostra grinta. Dobbiamo amarla, questa Roma, con tutti i suoi difetti, con tutte le sue contraddizioni. Dobbiamo continuare a cantarla, a scrivere le sue poesie, a viverla con passione. Non possiamo arrenderci, tesoro, perché Roma è eterna, e noi siamo parte di questa eternità».
Mi rendo conto che quando vado su di giri così c’è il rischio che mi prendeno pe’ matto. Ripenso al fatto curioso che Franco ha sempre tentato di comprare un quadro di Schifano proprio da Mario. Invece il pittore non gliel’ha venduto mai. Schifano aveva amico Lallo ’o Zoppo, quello del rapimento Palombini che prende il cadavere ammazzato del rapito e lo infila in un surgelatore. A Laudovino gli vende o regala una palma di metallo, a Franco niente. Ho pensato che Schifano rivaleggiasse cor Califfo per le donne. A Mario sua moglie un giorno trovò oltre duemila foto di nudi o di mezze spogliate che lo andavano a trovare in studio.
Ripartiamo. Francesco detto Franco. Ripenso: «Il suo è stato il combattimento della solitudine». Imbocchiamo di nuovo la Pontina, poi svoltiamo sull’Aurelia. Non andiamo nella casa dove è morto ad Acilia. Siamo diretti a Primavalle. A via Sisto IV. La villetta storica dove ha vissuto i lunghi anni romani e dove, uscito dal carcere, stando ai domiciliari, incise Impronte digitali col furgone fuori con i fonici e il mix e il resto. «Quando venni a cercarlo la prima volta» mi dice Carlo, «ci arrivai con le pagine bianche». Ora pare peggio. Mi indica la direzione seguendo la vocina di Google Maps. È un delirio. Sulla Pineta Sacchetti non c’è verso di svoltare. Entriamo a Primavalle e leggo «Ostriche & Champagne» (solo la sera). Entriamo in un girone infernale di Papi: Gregorio IX; Clemente X; Pio IX... Ci sono tutti meno quello che serve a noi. Tiger Jack è ansioso. «È qui, è qui...». Vedendo una muraglia bassa di auto saldate, guidando per stradine e strade irriconoscibili sono sicuro che il Califfo le puledre le prendeva con il lazo. Lui amava quelle di quartiere, le belle coatte. Le femmine toste di Montespaccato. Carlo mi dice che il Maestro era presidente di una minuscola società di calcio che cercava di salvare i ragazzi dall’eroina; alle spalle combattevano con lui le Madri-Coraggio. Ma eccoci. Evviva Sisto IV. «Eccola, la villetta!» esclama Mucari che provò pure con la boxe. Sono di fronte a una casa quadrata, chiamata villetta, semiabbandonata. Serrata dentro una recinzione a segmenti di ferro bianchi. Le finestre hanno le grate a ghirigori che chiamo stile Maroc, sempre dei Settanta. Eccola la villa dell’amante solitario, dello scamiciato impunito, l’autore di Minuetto, di La musica è finita... È identica a una casa sulle dune devastate di Torvaianica, dopo Ostia, dopo Capocotta. Dopo la fine del mondo. Pare che l’abbiano sradicata da lì e incastrata qua.
Nel giardinetto non ha resistito una palma alta. È morta. Ha una parrucca sporca per chioma. Io e Carlo ci facciamo un selfie davanti alla residenza, mentre un profumo di gelsomini ci droga.
Oggi inaugurano da un’altra parte, a Roma, una piazza intitolata a Franco Califano. Dico a Carlo: «Non era meglio che toglievano una via col nome di un Papa e ci mettevano il suo?». Carletto: «Qui è successo tutto, è successo tutto» e ripete: «so’ venuto con le pagine gialle».
Ci buttiamo sull’Aurelia e di nuovo la Pontina che conduce a Circe. La mia testa alticcia mi sussurra: «In fondo un papa normale a Primavalle potevano levarlo e metterci un papaccio candido e solitario; paraculo e timido; amico dei criminali e dei poracci come Franco Califano». Ma io nun so’ nessuno pe’ dillo. Lo ascolto in bagno quando faccio la barba. Ho smesso di cercare dove fosse rintanata la sua bassista di cui mi ero innamorato vedendola suonare in un video live. Gli amori sono finiti. Eppure, Tutto il resto è noia. «No, non ho detto gioia...»