Corriere della Sera, 12 giugno 2024
Un milione di chirurghi cercasi
In un mondo ancora ferito dalle guerre, la pace e l’umanità passano anche attraverso il diritto universale alla salute. Che in molti Paesi dilaniati dalla povertà significa poter avere accesso alle cure di base contro le malattie più comuni, come diarrea e polmonite, e agli interventi chirurgici essenziali, per un’appendicite o un taglio cesareo salvavita. L’associazione Italian global health action, nata ad aprile, sensibilizza opinione pubblica, professionisti del settore (medici, infermieri, ostetrici) e autorità sanitarie, sulla necessità di promuovere la salute globale. Anche perché nella società globalizzata neanche le malattie hanno confini e qualsiasi problema di salute (malattie trasmissibili come Hiv e Covid, non trasmissibili come diabete e cancro, resistenza agli antibiotici, e così via) richiede soluzioni transnazionali (i vaccini ad esempio), che implicano una cooperazione a livello globale e la gestione contemporanea dei vari fattori che li determinano, da quelli ambientali (cambiamento climatico) a quelli economici e sociali.
Al primo congresso promosso dalla neonata organizzazione per la salute globale è stata denunciata la forte diseguaglianza nell’accesso agli interventi chirurgici tra aree ricche e povere del Pianeta. I dati sono quelli del report della Lancet Commissione on Global surgery del 2015, il più grande studio sulla chirurgia nel mondo: 5 miliardi di persone, provenienti soprattutto da Stati a medio e basso reddito, non hanno diritto a operazioni sicure e sostenibili, neanche quelle di routine. Su circa 300 milioni di interventi eseguiti ogni anno solo il 6% viene effettuato nel Sud del mondo, dove vive un terzo della popolazione totale. Con il risultato che in questi posti si muore più facilmente per infezioni causate da fratture non trattate, un’ernia, un’appendicite, un parto complicato, un tumore al seno o al collo dell’utero non rimosso. Nel 2010 sono stati stimati quasi 17 milioni di decessi per mancanza di cure chirurgiche (un numero superiore a quelli per Hiv, tubercolosi e malaria insieme). «Ci sono diversi motivi per cui le persone nelle aree più povere del mondo non hanno ricorso ai servizi di chirurgia. Uno di questi – sottolinea Mauro Zago, direttore del dipartimento di chirurgia dell’ospedale Manzoni di Lecco e vicepresidente della commissione formazione della Società italiana di chirurgia – è la carenza di personale sanitario competente. Un altro è l’incapacità di far fronte alle spese per l’intervento, l’anestesia e il viaggio, in mancanza di un’assistenza sanitaria pubblica. Poi ci sono difficoltà di spostamento, legate alla distanza tra il villaggio e l’ospedale, anche di 200 chilometri, e alla scarsa agibilità dei percorsi. Infine, in tanti preferiscono affidarsi ai “guaritori” locali. La chirurgia di base è stata un’esigenza a lungo trascurata ma è indispensabile per assicurare la salute, evitare morti e ridurre le disabilità». La risposta al grave fabbisogno di cure chirurgiche non può limitarsi al volontariato. Zago prosegue: «È chiaro che non basta inviare dei medici a turno in questi luoghi, perché non riuscirebbero mai a soddisfare l’enorme carico di prestazioni. È stato calcolato che servirebbe almeno un milione tra chirurghi, anestesisti e ostetriche. È necessario, quindi, far crescere le competenze e l’organizzazione sul campo». Ed ecco l’idea: «Abbiamo pensato di creare una task force italiana di chirurghi e anestesisti con il compito di realizzare dei progetti di formazione del personale locale e di accompagnamento all’autonomia dei servizi di chirurgia. Il che vuol dire occuparsi anche di tutto quello che serve per garantire gli interventi in sicurezza, come il trasporto del sangue, che può avvenire attraverso l’uso di droni, e la sanificazione dell’acqua per il lavaggio delle mani. Di pari passo dovrà essere fornita un’educazione sanitaria alla popolazione per aumentare la percezione della propria salute e la conoscenza dell’iter di cura da seguire».
Mauro Zago
Non basta inviare medici a turno in luoghi lontani, vanno fatte crescere
le competenze sul campo
Intanto, l’associazione Italian global health action prosegue con i suoi progetti: tra gli obiettivi che l’associazione porterà avanti ci sono attività didattiche negli atenei universitari, incontri divulgativi, ricerca scientifica e raccolta fondi per sviluppare progetti di diagnosi e cura nei Paesi a medio e basso reddito e iniziative di prevenzione e diffusione di stili di vita corretti anche in Italia. «Siamo aperti alla collaborazione con altre organizzazioni del Terzo settore e con le istituzioni governative. È importante unire le forze e uscire dagli individualismi per fare meglio e di più», sintetizza il professor Luca Pavesi, odontoiatra monzese di 49 anni, presidente di Italian global health action pensata e voluta insieme al professor Moncilo Jankovic. Dal 1997 Pavesi affianca al suo lavoro (in uno studio privato e all’ospedale San Gerardo di Monza) viaggi in Africa, India e Sud America come dentista volontario.