Corriere della Sera, 12 giugno 2024
Biografia di Ambrogio Folonari raccontata da lui stesso
Alla Bocconi, quando Ambrogio Folonari, la scorsa settimana, ha raccontato la sua storia di imprenditore e gentiluomo del vino, il primo ad applaudire è stato un astemio, Andrea Sironi, presidente dell’università milanese. Perché non serve saper degustare per farsi catturare dalla serie di intuizioni e investimenti del 94enne signore della dinastia bresciana dei Folonari. Una dinastia che dal Settecento è plasmata da uno spirito calvinista, allo stesso tempo religioso e laico. Una dinastia che da più di un secolo fa convivere banche e vigne.
Quando ha iniziato a lavorare?
«Nel 1956 in Toscana. Papà Nino decise che mi dovevo occupare dell’azienda del Chianti, nostra dal 1911. Ero predestinato da ragazzo: nel 1949 mi mandò da Brescia all’università di Agraria. I Folonari avevano vigneti in tutta Italia, arrivano a Brescia treni carichi di uve pugliesi. In Toscana avevamo la Ruffino che negli anni 30 esportava la metà del vino italiano in tutto il mondo. Nei famosi fiaschi impagliati».
Chi erano i suoi compagni di studi?
«Con Vittorio Frescobaldi nacque subito una grande amicizia. Mi fece la matricola, un rito goliardico con bastonate e parolacce. Andavamo in giro con il cappello da universitari a chiedere i soldi per un caffè, fingendoci poveri».
Come vi divertivate?
«Facevamo grandi scorribande sull’Alfa Romeo di Vittorio a Forte dei Marmi per conoscere ragazze. Lui con le ragazze era bravissimo. Io non possedevo un’auto: per tradizione, nella nostra famiglia, si regalava una Vespa alla Maturità e l’auto alla laurea. Lui era più ricco. Ma rimase presto senza il papà e dovette lavorare subito alla Marchesi Frescobaldi, una delle più antiche aziende del vino. Finirono le scorribande».
Quando vi siete rivisti?
«Anni dopo. Volevamo irrobustire e migliorare il Chianti, che non era certo quello di oggi. Ottenere 10 gradi alcolici era un gran risultato. Oggi con il cambiamento climatico, c’è il problema opposto».
Cosa avete ideato insieme?
«Un nuovo bianco. Il Chianti bianco era stato cancellato per legge. E il Trebbiano non si usava più per gli uvaggi nel Chianti rosso. Con Piero Antinori, altro grande del settore, abbiamo pensato di usare le uve per un moderno bianco toscano di largo consumo, il Galestro».
Fu un successo clamoroso
«Un’idea azzeccata, abbiamo venduto decine di milioni di bottiglie. L’unione di tre aziende che superava l’individualismo dei vignaioli. Una svolta per l’Italia. La nascita del Galestro ha saldato l’amicizia che dura ancora con Piero e Vittorio».
È stato un vino moderno per quell’epoca.
«Il frutto dell’intuizione che le famiglie non volevano solo il vino del popolo, quello dei contadini. Con il boom economico e la fine della mezzadria gli italiani iniziarono a viaggiare e a scoprire il vino degli altri, ad esempio dei francesi.
Chi scelse il nome Galestro tra voi tre?
«Insieme. L’agenzia ci propose anche Garbino, ma non ci piacque».
I vostri fiaschi diventati sinonimo di vino italiano, anche in tanti film, poi sono spariti.
«Sì, perché abbiamo capito che contava più il contenitore del vino. Nel 1957, durante un viaggio negli Stati Uniti, ho scoperto che molti americani compravano il nostro Chianti per usare il fiasco come portacandele. Un fiasco con la candela l’ho visto anche in una scena della serie televisiva, Mad Men, ambientata negli anni Sessanta a New York».
Così iniziò la campagna su Carosello.
«Era il 1971: nello spot un uomo piccolo seguiva uno alto per scoprire come potesse permettersi vino in bottiglia, Barbera, Sangiovese e Lambrusco. Lo slogan era: costa solo mezzo bicchiere in più».
E negli Stati Uniti?
«Lanciammo una campagna con il fiasco e una candela. Lo slogan era: preferiamo essere conosciuti per produttori di un grande Chianti piuttosto che di un grande portacandele».
Chi le ha fatto da mentore all’inizio della sua carriera?
«Tito Juffman, il capo del sistema tecnico del gruppo. Viveva con tre valigie sempre pronte per i viaggi, divise per numero dei giorni dei viaggi».
Nel suo libro «Nelle mie vigne l’eredità del Cabreo» racconta gli incontri con Luigi Veronelli. Lo temeva?
«Era molto severo ed esigente, ma anche aperto, considerava i Folonari degni della sua simpatia. Veniva a vedere le vigne. Apprezzò i nomi sui cartelli apposti su ogni vigna, l’inizio dei cru. Ci ha spinto a dedicarci non alla quantità ma alla qualità».
Chi sono i Folonari banchieri?
«Francesco Folonari creò la Banca San Paolo di Brescia, di cui poi è stato vice presidente Giovanni Bazoli, nostro cugino, ora presidente onorario di Intesa Sanpaolo. Nonno Italo guidò la Banca Cattolica, della quale si diceva che ogni riunione iniziava con un Padre nostro».
L’intreccio famigliare tra banche e vigne vi ha portato in dote l’azienda più nota, Tenuta di Nozzole.
«Mio padre era il vice presidente della Banca Commerciale Italiana. Il presidente era Raffaele Mattioli, il banchiere umanista: Nozzole era intestata alla figlia Letizia. Mattioli bistrattava il genero, Leonardo Rimediotti, che gestiva la Tenuta puntando sul bestiame. Rimediotti era un colonnello di cavalleria, non poteva sopportare i rimproveri del suocero. Convinse la moglie a vendere».
Per quanti soldi?
«500 milioni di lire».
Tanto o poco?
«Tanto, era il 1971. Abbiamo acquistato senza un documento. Il giorno dopo la figlia chiama Mattioli e lo informa della vendita. Lui ci convoca nel suo ufficio a Milano. Non c’era nulla di scritto. Mio padre porta il suo notaio e la famiglia. Il banchiere dice a papà: se vuoi Nozzole paga subito. E papà firma davanti l’assegno da 500 milioni. Mattioli dice: domani finisce tutto in dollari».
Com’è nato il vostro vino Cabreo, nel 1982?
«Nel Chianti Classico alcuni producevano negli anni 70 vini di qualità superiore, al di fuori della denominazione, i famosi Super Tuscan: Tignanello di Antinori, Vigorello di San Felice, Sodi di San Nicolò... Ho aggiunto il mio Super Tuscan. Il nome? Cabreo è il volume con l’inventario delle proprietà terriere descritte ad acquarello».
Quando il Cabreo era pronto avete scoperto che il nome era già usato da un’azienda in Friuli-Venezia Giulia.
«Si è rischiato che saltasse tutto. Poi scoprimmo che l’azienda era fallita. Abbiamo acquistato il marchio dal curatore fallimentare».
Cosa le ha insegnato la sua carriera di produttore di vino?
«Amare un prodotto, appassionarsi. Se fossi un siderurgico, amare il ferro sarebbe più difficile. Il vino dona anche piacere. Lo storico Piero Camporesi ha parlato del vino come di una sostanza sacra. E papa Francesco, pochi mesi fa, ha detto che è un dono di Dio che porta gioia al cuore di ogni uomo».
Come è stato il suo passaggio generazionale?
«Spesso le famiglie si rompono. Così è capitato a noi. Quando ci siamo divisi, con mio figlio Giovanni ho fondato una nuova azienda, le Tenute Ambrogio e Giovanni Folonari, dal Chianti Classico al Brunello e a Bolgheri. Era il 2000. Certo non è la stessa cosa di quando avevamo i marchi Folonari e Ruffino, venduta agli americani di Constellation».
Il passaggio tra lei e i figli?
«Ora sono presidente onorario. Giovanni, Francesco e Angelica sono al timone. Poi c’è la nuova generazione dei ragazzi, Filippo e Martina, con i loro fratelli e cugini, sono molto interessati e ciò mi dà molta speranza per il futuro. Vedo molta unità e raccomando a tutti: andate d’accordo».
Come si evitano i rischi?
«Piero Antinori ha costruito un trust. È stata la scelta giusta. Difficile da gestire. Ma garantisce la continuità aziendale».
Cosa vuole trasmettere alla famiglia?
«Umiltà, pazienza. E sopportazione per quello che non dipende da te. Noi produttori di vino dipendiamo dal meteo e dalle calamità. E dobbiamo cercare di resistere».