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 2024  giugno 12 Mercoledì calendario

Confalonieri ricorda Berlusconi

Un anno fa Silvio Berlusconi lo lasciò come unico erede dei loro ricordi, di storie che non saranno mai storia perché solo lui ne resterà depositario. E infatti alla vigilia della prima ricorrenza, Fedele Confalonieri sceglie «il silenzio, che è il miglior modo per commemorarlo»: «Tengo per me il mio Silvio», cioè le memorie private dell’amico di una vita che è stato uomo pubblico per definizione. L’alfa e l’omega di un ventennio politico. Il fondatore di un impero mediatico. Il presidente di club più titolato nella storia del calcio mondiale. «Un genio». Un arci italiano così divisivo che «i suoi avversari faticano a riconoscergli quanto ha fatto. Ancora oggi». Oggi che è un anno dalla sua scomparsa. 
Sebbene fosse preparato al distacco, per mesi Confalonieri ha attraversato una fase emotiva molto difficile. Aveva smesso di spostarsi a Roma nel mezzo della settimana per curare gli interessi del Biscione, e solo negli ultimi tempi ha ripreso a tornare nella Capitale con viaggi brevi e non cadenzati come prima. «Perché sono vecchio e perché non c’è più Silvio». Quel «Silvio» che dopo aver conquistato Milano con tivvù, scudetti e palazzine, si era preso nel ’94 anche palazzo Chigi. Sognando fino all’ultimo di arredare persino le sale del Quirinale. E quando disse di volerci provare, Fidel si adoperò all’impresa: «Perché lui è l’uomo delle missioni impossibili. E io per lui farò l’impossibile». 
Fu il canto del cigno per Berlusconi ma non è stata la fine del berlusconismo. Perché è vero che la sua colpa fu di non aver lasciato «il partito moderato più grande della storia», come aveva promesso. Ma ha lasciato in eredità una coalizione, quel centro-destra che fu la sua invenzione e che nonostante ora somigli più a un destra-centro, è tornato al governo con una sua (lontana) erede alla guida. «Che mi pare che vada molto bene», ha detto Confalonieri leggendo i risultati delle Europee. Pure Forza Italia ha resistito alle intemperie della politica e all’assenza di Berlusconi: grazie al lavoro del suo gruppo dirigente e al sostegno della sua famiglia. 
«I ragazzi sono bravi», ha commentato una volta «zio Fedele» parlando dei figli di Berlusconi: «Stanno onorando il padre rispettando le sue volontà. Con riservatezza e senza liti, come invece succede in altre famiglie dove c’è di mezzo un patrimonio». Non sono frasi di circostanza, perché non è un dipendente che parla dei suoi datori di lavoro. Fidel è la persona che divise la fanciullezza e poi la giovinezza con il Cavaliere, fu l’unico che lo licenziò perché – invece di suonare nell’orchestrina che avevano messo in piedi – «Silvio si attardava nelle pubbliche relazioni con le ragazze che ci stavano a sentire nei night e nelle balere». «Era fatto così...». E non è mai cambiato. 
Come non è mai cambiato il loro sodalizio. Malgrado Confalonieri ripeta sempre che «se sono quel che sono lo devo a Berlusconi», è risaputo che a lui fosse concesso di contraddirlo. In privato come in pubblico. Un diritto esclusivo, riconosciuto non solo per ragioni di amicizia. Al fiuto aziendale, infatti, si accompagna anche il fiuto politico che Fidel cela dietro il suo ruolo da «lobbista». Ma ancora nell’ultima stagione romana del Cavaliere è stato lui ad anticipare i tempi, facendo l’endorsement a favore di Giorgia Meloni. E sempre lui aveva spiegato a Berlusconi che «Elly Schlein rianimerà la sinistra, perché dice cose nuove ai suoi elettori. Quando parla delle disuguaglianze, per esempio». 
La coalizione 
Lascia in eredità il centrodestra, la sua invenzione. «E mi pare stia andando bene» 
Sempre al fianco di Silvio. Nella stagione del bipolarismo muscolare, quello dei duelli con Romano Prodi. Nei giorni tribolati del secondo rapporto coniugale, quando parlava con Veronica Lario. Nel periodo dei servizi sociali a Cesano Boscone, «che è stato l’ultimo atto della guerra scatenata dalle toghe contro di lui». E infine nell’epilogo triste della malattia, quando per preservare l’amico si ribellò all’insistenza dei cronisti con un «non rompete i cogl...». Pur di stargli accanto, chiese comprensione alla figlia che lo attendeva a Parigi. E restò a Milano. Dove avrebbe poi sovrinteso in prefettura all’organizzazione della cerimonia funebre. 
«So di esser vecchio, ma quando mi chiedevano se lui fosse vecchio non rispondevo mai». Era il loro legame a rendere Berlusconi immortale. In passato lo aveva considerato un «invincibile», per via di quelle idee che «sembravano sogni irrealizzabili e che lui invece riusciva a concretizzare». Era affascinato dal Cavaliere ma ne vedeva le debolezze. E criticava i suoi errori. Negli ultimi anni ci fu un periodo in cui non riusciva a parlargli a quattr’occhi. I loro dialoghi, persino al telefono, erano sempre mediati da altre presenze. E se ne doleva. Ma il rapporto sopravvisse a quella fase e si ristabilì come ai vecchi tempi. 
Nutrivano la stessa simpatia per Umberto Bossi, non fosse altro perché Fedele si sentiva (e si sente) «un leghista della prima ora. Della prima non dell’ultima». E perché Berlusconi, dopo gli insulti di «Berluskaz», stabilì una consuetudine con il fondatore del Carroccio: «...E sappi che quando tu smetterai di far politica, lo farò anch’io». Non hanno mai smesso. E nessuno è riuscito a spodestare il Cavaliere: è lunga la lista di volpi finite in pellicceria. D’altronde, come spiegò a quei tempi Confalonieri, «in politica non esiste una legge in base alla quale la leadership viene trasmessa per eredità». Che tradotto per gli aspiranti voleva dire: prendetegli il potere se ne siete capaci. 
A strapparglielo – insieme ai passi falsi – è stato il tempo e quel processo di logoramento delle cose umane che in politica si rivela con la perdita del consenso. Già in principio Berlusconi si meravigliava di non avere la fiducia di tutti gli italiani. Figurarsi quando negli ultimi anni – specchiandosi nei sondaggi – si accorse di non avere più la fiducia di tutti quegli italiani che lo avevano votato. Dai tempi della «discesa in campo» fino al balzo sul famoso «predellino», era riuscito a rialzarsi dopo ogni caduta. Quando consegnò la campanella del Consiglio dei ministri a Mario Monti, sapeva che non l’avrebbe più fatta suonare. 
Ma l’impresa più difficile della sua vita fu riuscire a mettere insieme undici giocatori in campo, piuttosto che mettere d’accordo undici milioni di italiani. E sebbene da anni non fosse più il loro presidente, c’erano i tifosi del Milan sul sagrato del Duomo il giorno del suo funerale. L’epopea berlusconiana resiste nel simbolo del Biscione, e ancora oggi Confalonieri è il rappresentante degli anni ruggenti della sfida alla tv di Stato. Non c’è momento pubblico dei due che non sia stato raccontato. Ma di quello privato Fidel non vuol parlare: «Tengo per me il mio Silvio». È geloso della sua eredità.