il Fatto Quotidiano, 12 giugno 2024
Che noia vincere sempre
Anticipiamo stralci di “Si è tifosi della propria squadra perché si è tifosi della propria vita”, gli “Scritti sul calcio” di Giovanni Raboni, in libreria con Mimesis il 21.06
Come tifoso dello sport che si chiama calcio, mi appassiono a tutte le partite possibili e immaginabili: dagli incontri del campionato svizzero, quando a Milano si vedeva ancora la televisione svizzera, alle partite cinque contro cinque o sei contro sei giocate dai ragazzi sui campetti di periferia.
Come tifoso di una squadra (ed eccomi al punto), sono tifoso dell’Inter. Non so da quando: forse da sempre. Ho assistito alla mia prima partita all’età di sei o sette anni, poco prima dello scoppio della Seconda guerra mondiale. Non ricordo che partita fosse; ricordo che giocava l’Inter (chiamata allora, per imposizione del governo fascista, Ambrosiana), e ricordo che vinse. I colori nerazzurri si saldarono così in modo indissolubile, per me, all’idea di una felicità festiva, di un’improvvisa leggerezza, all’immagine e al rumore di una folla divertita e appagata, alla sensazione che una cosa fosse andata bene, nel verso giusto… La domenica pomeriggio si trasformò per sempre, dentro di me, nella promessa di una strana luminosità nitida e animata, di un evento ricco di velocità e dotato di un’indefinibile precisione rituale. La tenuta stessa della squadra che aveva vinto (calzoncini neri, casacca a strisce verticali nere e azzurre) mi apparve, e mi appare tuttora, come il simbolo dell’eleganza vittoriosa, della destrezza e del buongusto giustamente premiati dalla fortuna. Mai potrei tifare per una squadra che indossasse colori sgargianti; confesso che mi ci vuole una bella fatica per sentirmi dalla parte della nazionale italiana, con quell’azzurro chiassoso e impudico e quelle ridicole mutande bianche…
Poi vennero la guerra, i bombardamenti, il lungo esilio da Milano. Per un bambino “sfollato”, tutto ciò che apparteneva a prima, agli anni della cosiddetta pace, aveva smesso di esistere, non aveva più realtà di una fiaba o di una vecchia foto su un album. Così, insieme alla mia casa, anche l’Ambrosiana-Inter sparì come in un grande baule lucchettato. Non ci volle molto, naturalmente, a farla riemergere. Bastò andare, finita la guerra, a vederla perdere contro una squadra di secondo piano nel dolce, triste invaso napoleonico dell’Arena. (L’Inter giocava allora a due passi dal Castello Sforzesco – era anche quella una patente di nobiltà, di raffinatezza superiore e un po’ decrepita, rispetto ai “cugini” del Milan che giocavano, invece, in periferia, in uno stadio “moderno”). A perdere, ho detto. Eh, sì, negli anni dell’immediato dopoguerra una serie di grotteschi infortuni e malintesi aveva ridotto l’Inter alla lotta per non retrocedere. Giocatori sudamericani comprati come campioni e rivelatisi brocchi o ruderi erano, alla fine, persino fuggiti; uno solo, l’ala sinistra Zapirain, che avrà avuto una cinquantina d’anni, rimase onestamente a recitare fino in fondo la sua parte di ex fantasista attaccato dai reumatismi… E si vide il vecchio Meazza, che non giocava da anni, tornare in campo per salvare la sua squadra: non correva, se ne stava quasi immobile a centrocampo, ma i suoi passaggi smarcanti, le sue sciabolate lungolinea erano sublimi; e la squadra si salvò. Che meravigliosa Inter era quella! Scalcinata ma ancora aristocratica, con un piede nella fossa della Serie B ma con due o tre giocatori di gran classe, estrosi e affascinanti… Il mio tifo nerazzurro non è mai stato, dopo, altrettanto forte e convinto: neppure negli anni 50, quando l’Inter ritornò grande.
Può darsi che io sia un tifoso atipico; personalmente, sono convinto del contrario. Atipici, per me (e anche terribilmente antipatici), sono i tifosi trionfalisti e aggressivi: quelli che schiamazzano dopo la vittoria, che insultano gli avversari, che girano per la città suonando clacson e trombette. Lasciamo da parte quelli che sparano e accoltellano; i delinquenti ci sono dappertutto, in tutte le categorie e a tutti i livelli sociali. No, sto parlando dei tifosi introversi, dei tifosi “in positivo”; per me, ripeto, il vero tifoso è introverso, pessimista, malinconico e dal suo essere tale ricava le sue rare, sofferte e ineffabili gioie… I soli tifosi che compiango veramente dal profondo del cuore sono i tifosi della Juventus, con i loro punti di vantaggio, i loro record, la loro imbattibilità passata, presente e futura. Che cosa possono aspettarsi dalla vita? Altre vittorie, altri Scudetti, altre Coppe… Che tristezza, anzi: che noia, signori! come avrebbe detto uno che di queste cose se ne intendeva, il grande Nikolaj Gogol.
Che tristezza le partite di calcio alla televisione. Niente prima, niente dopo; nessuna storia, nessuna realtà in cui inserirle. La partita ci raggiunge in casa, di soppiatto, a tradimento, in mezzo ai nostri mobili, a due passi dal libro che stavamo leggendo; non siamo più noi a scegliere la partita, a volerla vivere, è la partita che invade il nostro tempo, distrugge la calma e la penombra delle nostre abitudini… È troppo facile obiettare che basta premere un pulsante per tornare padroni della nostra serata. Non è vero: la partita rimane lì, dentro la scatola ambiguamente muta del televisore; non possiamo far finta che non ci sia. Sarebbe come avere in casa la lampada d’Aladino e usarla soltanto come soprammobile. Non c’è niente da fare; se trasmettono una partita, non c’è che una cosa da fare: vederla.