la Repubblica, 12 giugno 2024
Prendiamoci una pausa dal “so tutto io”
Non è una buona cosa: ecco cosa mi viene in mente quando penso alla timidezza. O quantomeno, sono abbastanza certa che non dovrebbe esserlo. Timidezza è una parola ancora in uso nel vocabolario della gente comune? Mi sembra soprattutto una parola del Diciannovesimo secolo, evocatrice di immagini di zitelle povere che in quanto a vitto e alloggio dipendevano dalle loro famiglie rancorose. Di generazioni di bambini vittoriani vestiti alla marinara che ci si aspettava di “vedere ma non sentire”. E forse anche di timidi corteggiatori, ai balli eleganti dell’alta società, che non osavano aggiungere i loro nomi al carnet di ballo dell’amata. Tutto questo per dire che sembra una descrizione di persone che non ci aspettiamo più di incontrare in questi tempi in cui si è quasi smesso di arrossire.
Mi sembra infatti che oggi la timidezza sia considerata un tratto quasi incomprensibile, indizio di una qualche forma di squilibrio mentale. Gli inguaribilmente timidi necessitano addirittura di una diagnosi per giustificare al mondo il loro strano comportamento. D’altronde, cosa c’è di più difficile da capire di una persona reticente nell’usare la propria “voce” per “accrescere la consapevolezza”? Per fare una critica costruttiva o, necessariamente, distruttiva? Per rendere il mondo un posto migliore come solo il loro contributo, declamato senza esitazioni e possibilmente divulgato in ogni dove, può fare? Ogni variante del “farsi i fatti propri” oggi viene spesso denunciata come nient’altro che una forma di complicità tattica al servizio dell’oppressione. Se fossimo ancora tutti credenti, ciò potrebbe essere spiegato ricorrendo alla parabola dei talenti del Vangelo di Matteo. In soldoni: se tieni il tuo talento sepolto sotto terra, invece di decuplicarlo – con visualizzazioni e like – non meriti altro che essere gettato nelle tenebre eterne, dove sarà pianto e stridore di denti. Vista in questa luce – e penso soprattutto alla faccenda dello stridore di denti – la timidezza fatica a vendersi come un approccio consono al mondo moderno. Meglio continuare a strillare più forte di tutti gli altri. Non c’è niente che sia come qualche ora trascorsa a urlare contro gente sconosciuta per darti l’impressione di non avere sprecato la giornata. «Un pizzico di vanità è un’ottima cosa da aggiungere al mix quando si tratta di bilanciare la timidezza», disse una volta il grande Mel Brooks. Ma Mel Brooks, e il suo essere leggendario, è il prodotto di un’epoca più autoironica di questa. Cinica come sono, non riesco a fare a meno di chiedermi se un pizzico di timidezza, per bilanciare la vanità, non possa fare miracoli in questa nostra era in cui tutti sono sempre pronti a commentare e felici di criticare. Ecco: sembrerebbe proprio che in questi due paragrafi abbia iniziato a parlare del valore della timidezza, per quanto sia un termine che di solito associo a criceti spaventati e a fragili zie nubili. Ma se invece di un lamento contro la timidezza, il mio diventasse un perorarne a gran voce la causa, per cosa mi starei battendo? Per il diritto di vest irmi in crinolina e apparire più sottomessa? O di mettere via più cibo all’ora dei pasti da consumare più tardi in un’abbuffata a mezzanotte? Non saprei, ma mi sa che così non andrei molto lontano. Mi sento comunque di suggerire che l’essere un po’ più timidi potrebbe allungare il tempo che intercorre tra il pensiero originario e la sua articolazione in pubblico. Che questo momento di sospensione potrebbe permettere al sinonimo della parola timidezza – tratto che oggi è ancor meno ammirato – ovvero la “modestia”, di entrare prima in circolo dentro al cervello. E, magari, di attivare qualche facoltà in più nello sviluppo di un pensiero trattenendolo, in innocua privacy, dentro la testa. Per esempio, una valutazione onesta di quanto effettivamente si sa sull’argomento in questione e sulla sua storia, potenzialmente complessa e multiforme, prima di decidere di offrire congetture provocatorie e l’ostentazione di una grande emozione – per quanto nobile possa sembrare il sentimento. Chi lo sa? Ciò potrebbe anche portare ad alcuni secondi di scontro illuminante tra lo scrollare le polemiche impulsive su TikTok e la decisione che è arrivato il momento di premere il tasto Invia.
Oso addirittura sognare un tipo di timidezza che incoraggia un uso più ampio di quello che il dono più trasformativo dell’umanità – o talento, se vogliamo – che da sempre è stato fonte di domande, idee e dibattiti. Tutte cose di cui la timidezza è un facilitatore poco affascinante, ma indispensabile. Essa fornisce il tempo per fare crescere la curiosità e mettere alla prova le nozioni avventate. Cedere all’esitazione, come induce a fare la timidezza, potrebbe anche fornire una tregua necessaria dalla spinta a conformarsi. Anche se ultimamente è diventato fuori moda non sapere già tutto, l’invito della timidezza a un periodo di riflessione più profonda – prima che il dire la propria sprigioni l’adrenalina – sarebbe davvero un’influenza così cattiva?
Quindi, se la timidezza serve a qualcosa – e adesso ho cambiato idea in proposito, perché penso davvero che a qualcosa serva – deve essere sicuramente a questo. Perché in mezzo a tutto il frastuono del mondo, un po’ di timidezza potrebbe darci il tempo di cominciare nuovamente a riflettere sull’essere qualcosa di più di una voce arrabbiata su uno schermo. Qualcosa di più che semplici portavoce della nostra stessa tribù: persone che ci assomigliano o si comportano come noi, persone con cui ci sentiamo al sicuro e alla pari. E nella nostra timidezza forse potremmo scoprire un’opportunità per guardare oltre. Così oltre da riuscire persino a trovare un modo per migliorare il funzionamento di quella cosa di cui tutti continuiamo a fare parte, a prescindere dal fatto di essere o non essere d’accordo con ogni suo elemento. Quella cosa la cui capacità di funzionare si basa sulla nostra capacità di trovare del buono in coloro che sappiamo essere differenti da noi. Coloro che hanno convinzioni diverse dalle nostre. Coloro con cui possiamo essere profondamente in disaccordo, ma che dovremmo obbligarci ad ascoltare co sì come a nostra volta ci aspettiamo di essere ascoltati. Quella cosa a cui tutti dovremmo avere diritto di aderire pienamente e partecipare in egual misura. Quella cosa d’altri tempi, molto derisa e che si porta dietro una storia pesantissima di torti subiti. Quella cosa che, per quanto imperfetta, dobbiamo scegliere per tornare a vivere insieme: la società.