la Repubblica, 12 giugno 2024
Intervista a Giorgio Armani
«Il mio primo ricordo? È di me bambino che vado a rubare i panini all’olio in casa di un mio amico di scuola. Ed erano molto buoni, io non me li potevo permettere, e neanche i miei». Giorgio Armani sorride ripensando a quel ragazzino.
Alla vigilia del suo novantesimo compleanno, l’11 luglio, lo stilista ha accettato di ripercorrere con U la Repubblica incontri, eventi e scelte che lo hanno portato a diventare il volto simbolo del Made in Italy – il prossimo anno si festeggeranno i 50 anni dell’azienda, che oggi conta 9.257 dipendenti e un fatturato di 2,35 miliardi di euro (dati 2023). È un pomeriggio di tempo incerto a Milano, sole e nuvole si rincorrono proiettando lunghe ombre nello studio dello stilista. Armani indossa una maglia (blu, naturalmente) con la zip e siede circondato da libri e ritratti, tra cui quello molto famoso dipinto per lui da Andy Warhol.
Quando ha scoperto la moda?
«Per la verità è la moda che ha scoperto me. Ero a Milano e dovevo trovare un’occupazione. E tramite l’impiego che avevo alla Rinascente (si occupava delle vetrine, ndr) mi sono sentito messo in discussione.
Nel senso che non amavo quello che vedevo. Così mi sono detto: voglio fare delle cose che piacciono a me. E che la gente è giusto che porti. In modo presuntuoso, forse, ma è quello che ho pensato».
Cosa vede oggi attorno a lei che le piace e non le piace?
«Tante cose non mi piacciono. Cose che vengono imposte al pubblico di qualsiasi livello: alto, basso. Non mi piace che chiamino moda quello che in realtà secondo me è solo un divertimento: un divertimento di chi ha disegnato, di chi ha prodotto, e che cerca disperatamente una strada nuova, dimenticando che poi la strada nuova è sempre quella vecchia».
Invece cosa vede che le piace?
«Amo le cose sottili, la discrezione, l’eleganza che nasce dall’intelligenza. Potrebbe sembrare un atteggiamento moralistico, ma sono certo che la sobrietà sia sempre una qualità vincente. E poi c’è una cosa che mi piace davvero: l’amore dei giovani per la moda. Quando vado a vedere giocare il basket, c’è una fila di ragazzini che mi saluta agitando la manina. È bello. Poi ci sono, ovviamente, i riconoscimenti di carattere più istituzionale. Ma l’affetto della gente: quello mi emoziona davvero».
Se dovesse spiegare a uno di questi ragazzi che cosa distingue il suo lavoro, il suo metodo?
«Ciò che distingue il mio lavoro è il non credere a un gioco facile. Non credere a una soluzione che sa di innovazione fine a sé stessa, che non tiene conto del fatto che alla fine la gente si veste in maniera logica. Intendiamoci: mi piace anche la fantasia, mi piace vedere che c’è una ricerca, un dettaglio speciale. Ma perché dovremmo pensare di emozionare disegnando delle spalle sproporzionate?
L’esasperazione: io non faccio parte di questo mondo».
Come si spiega che a tanti ragazzi interessi una storia come la sua, che viene da un passato per loro lontano?
«C’è una visione del passato che interessa anche i giovani. Io dico sempre: i giovani vogliono Armani».
Perché?
«Perché li rende sicuri. Non discutibili. Non messi in discussione».
Quindi il suo lavoro trasmette identità. In che modo?
«Perché non travisa il corpo umano. Perché lo rispetta e ne esalta i lati migliori».
Le capita spesso di provare nostalgia?
«Più si invecchia più il rapporto con il passato diventa complesso.
Cerco di guardare al passato come a un serbatoio di memorie e belle sensazioni, ma a volte mi capita di avere rimpianti o rammarichi per cose che non ho fatto, che avrei potuto fare. Mi riferisco soprattutto alla vita privata, perché nel lavoro sono riuscito veramente a realizzare la mia visione in maniera totale».
Si è scritto di recente che in futuro la sua azienda potrebbe essere ceduta.
«So di avere messo l’azienda per il futuro nelle mani di persone di cui mi fido e, quindi, immagino che il mio stile possa continuare a essere espresso in maniera altrettanto chiara da chi verrà dopo. Il mio sogno più grande è che lo stile Armani rimanga un’espressione di stile italiano e che anche tra 50 o 100 anni lo si identifichi come qualcosa di speciale, autentico e originale.
È un sogno, forse, ma alla mia età penso che sia ancora giusto poter sognare, anzi è doveroso».
Di notte sogna?
«Fino a dieci anni fa sognavo anche delle cose strane. Un po’ di sesso, ogni tanto. Adesso che ho novant’anni, sognando recupero momenti del passato. Naturalmente è un passato rivisto e corretto, filtrato da un aggiornamento psicologico e dal vissuto della giornata. La notte è il seguito di questa storia. Quindi sogno anche delle cose orrende. Delle cose orrende che magari non avrei mai fatto e che nel sogno invece ho fatto. Sono un po’, come si può dire, alternativo nel sogno (ride, ndr)».
Che cosa vede per il nostro Paese, che cosa spera?
«Spero innanzitutto di vedere i politici vestiti bene. Che evitino di fare gli sportivi a tutti i costi. In una riunione uno deve essere in giacca e cravatta. Fine della discussione. E poi, soprattutto, trovo debilitante il fatto che accendendo la televisione vediamo tutti questi scazzi fra di loro. Questo non l’accetto, occupano delle poltrone importanti sia per la povera gente sia per chi è diventato ricco lavorando, perché i soldi non piovono dal cielo».
Ci sono immagini molto belle di lei che finisce di aggiustare un abito addosso a una modella. Cosa pensa in quel momento?
«Dunque, se l’insieme, se il connubio tra modello e vestito tornano, sono estremamente felice. Proprio felice.
Sono riuscito a fare qualcosa che mi piace. Ecco, non ho ancora detto che quello che faccio deve piacere prima di tutto a me. È importante».