La Stampa, 11 giugno 2024
Intervista a Marco Morricone
L’appuntamento con Marco Morricone è alla mattina presto (ma non prestissimo, a quest’ora – le 9 – suo padre Ennio sarebbe già stato al lavoro da mezz’ora, dopo la sveglia prima dell’alba, il caffè, il giornale all’edicola sotto casa, la ginnastica domestica).
Mattiniero come suo padre?
«Sì, ma non per imitazione. Dipende più che altro dai percorsi di vita, forse dal fatto che dai miei 11 anni fino ai 17 abbiamo abitato a Mentana, fuori Roma, e ci voleva un’ora per arrivare a scuola».
Non fu facile per lei, lo scrive anche nel libro…
«Mio padre era contento, perché lavorava alla Rca, lì vicino... A me sembrava che mi stessero scippando la giovinezza».
A Mentana c’era una comunità di musicisti.
«Sì, nel raggio di 500 metri abitavano Luis Bacalov, Franco Pisano, Sergio Endrigo, Sergio Bardotti... Veniva spesso Lucio Dalla, poi arrivarono i brasiliani in esilio, Chico Buarque visse lì a lungo. C’erano riunioni serali in cui papà sperimentava, Endrigo sperimentava… C’era una comunità, ma non era la mia».
Un’adolescenza conflittuale?
«Non direi, a casa nostra c’era un unico divieto, quello di ascoltare i dischi e la radio. Papà non voleva essere condizionato dalla musica del momento, per cui niente Pink Floyd, Emerson Lake & Palmer… Con gli amici facevo la figura dell’ignorante».
Il libro che Marco Morricone ha scritto in dialogo col giornalista del Corriere della Sera Valerio Cappelli viaggia sul filo dei ricordi, pubblici e privati. Marco, nato nel 1957, è il primo dei quattro figli del maestro e di sua moglie Maria, ed è colui che più gli è stato vicino nell’ultima stagione artistica, quella dei concerti, dalla fine degli Anni 90 in poi. Gli faceva da assistente, manager, guardia del corpo. «Un giorno all’aeroporto di Mosca, prima di imbarcarci per Roma, mi diede in mano la sua borsa con le partiture. Era l’oggetto a cui teneva di più al mondo, la sua tiara con i diamanti. Rimasi di stucco, con un’espressione piena di gratitudine. Ci guardammo negli occhi senza dirci una parola. Era il segno che aveva deciso di riporre la sua fiducia in me», scrive nel libro.
Com’è stato crescere in casa Morricone?
«Non si poteva ascoltare la radio, però potevamo fare tutto il chiasso del mondo. Papà aveva una capacità di concentrazione mostruosa. Le note per lui erano una specie di alfabeto, parlava così. Componeva sullo spartito, quasi mai al pianoforte. E assolutamente non si poteva entrare nel suo studio, quello era il suo giardino».
Su quattro figli, uno solo è diventato musicista.
«A chi gli chiedeva consigli, domandava sempre: hai fatto il Conservatorio? Se rispondevi sì, diceva: studia! Se dicevi no: allora studia! Mio fratello Andrea, che è un bravo direttore d’orchestra, ha avuto i migliori insegnanti perché si è imposto con forza. Papà non sarebbe stato adatto».
Suo padre insegnò al Conservatorio, a Frosinone, ma forse non era la sua dimensione.
«Mio padre, che ha avuto per tutta la vita grandi dolori, agli studenti ha cercato di trasmettere la sofferenza dello scrivere. Aveva un’etica molto forte, un grande rispetto per il suo maestro Goffredo Petrassi, per anni gli sembrò di aver tradito quello che aveva studiato. Si liberò solo dopo, grazie a un incontro con Petrassi, che gli disse che il pezzo più bello che aveva scritto era il tema di Per qualche dollaro in più, e grazie a una lettera di Boris Porena, suo compagno di studi. Quando la ricevette, pianse. Si sentì riabilitato».
Il riconoscimento dei suoi pari (o presunti tali) fu un momento fondamentale?
«Sì, come furono fondamentali l’incontro con Sergio Leone, C’era una volta in America, la musica di Mission, in cui espresse la sua religiosità... Ce ne sono molti, di momenti fondamentali nella sua vita».
Chi era davvero?
«Era un artigiano che scriveva a penna, i suoi pensieri erano talmente chiari che sui suoi spartiti non ci sono correzioni. Il tema degli Intoccabili, quello dell’arresto di Al Capone, l’ha scritto la mattina alle 2 al bagno. La musica di Sacco e Vanzetti l’ha composta in spiaggia, una delle rare volte in cui siamo andati al mare. Per Mission seguì i movimenti delle dita dell’attore sull’oboe, in una scena che era già stata girata».
La musica di Mission, che scandalosamente non vinse l’Oscar, era quella cui era più affezionato, anche se forse non l’avrebbe mai ammesso.
«Per quel film, in due mesi, scrisse tre musiche quasi perfettamente sovrapponibili con un’ispirazione soprannaturale: rappresentavano il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo».
Nel libro racconta di quando, al Festival delle religioni di Firenze, cercò di spiegarlo, ma non riuscì a pronunciare le parole Trinità divina.
«Perché lui parlava con il suo alfabeto, che era la musica. Neppure io ho la pretesa di capirlo, o decodificarlo. Ho semplicemente avuto il privilegio di stargli vicino, e l’ho fatto perché era mio padre. Sentivo forte il dovere di sostenerlo nei momenti di fragilità».
Ha vissuto con lui i 30 anni in cui ha diretto le sue musiche in tutto il mondo.
«Una delle prima volte insieme, al Barbican, a Londra, prima del concerto mi chiese: “Ma… c’è qualcuno?”. E io: “Papà, è pieno”. Divenne un tormentone, ogni volta l’ultima battuta prima di iniziare era: “C’è gente stasera?"».
Per molti fu sorprendente vederlo sul podio.
«Lui voleva solo che la sua musica fosse eseguita come l’aveva pensata. Era una persona sola? Terribilmente. Di sicuro ha sofferto di solitudine, ma l’ha riscattata, perché grazie a Dio il suo linguaggio è stato compreso in maniera incredibilmente trasversale. La musica viaggiava nell’aria, col vento, andava da sé. Non si sentiva un direttore d’orchestra, era modesto, poco appariscente, anti-personaggio. Però persona».
«Un enigma anche per me», nel libro lo descrive così.
«Da ragazzo mi diceva, quando uscivo: “Vai piano, ma fai presto”. Sì, era pieno di contraddizioni, come tutti, in più aveva una modalità comunicativa diversa da tutti. Penso che debba essere ancora decodificato. E soprattutto va scoperto l’uomo, perché è ancora migliore del compositore». —