La Stampa, 11 giugno 2024
Intervista a Chituru Ali
Prima dell’argento nei 100 metri agli Europei di Roma, Chituru Ali, 25 anni, una delle facce dell’esuberante Italia che vince, ha ascoltato trap e techno. Poi ha ritirato fuori gli auricolari e, come sempre, ha letto le due parole sulla custodia: «Ali Bomaye», il mantra che si tiene in testa a ogni gara: «Ali è il cognome più pesante da portare, lui se lo è scelto, io l’ho trovato. C’è tutto in quel grido della folla. La motivazione, il tifo, il campione».
Ali Bomaye: Ali uccidilo.
«Un modo per sostenerlo, “forza massacralo”, era per dargli forza, per dire “ricordati chi sei”. Io lo sento così».
Ha visto i video dei suoi incontri?
«Moltissimi. La boxe mi appassiona, ha lo stesso spirito dei 100 metri».
Ali è una voce politica. Oggi il mondo ha ancora bisogno di campioni militanti?
«Lui stava con Malcom X, per quel che ho capito, l’uomo che sposava la linea più aggressiva contro il razzismo rispetto a Martin Luther King. Ali aveva idee chiare e le difendeva, ha una storia che mi affascina, era un tipetto tosto (ride) e non a caso è considerato lo sportivo più influente, perché lottava per i diritti degli afroamericani: bisogna avere una certa statura per fare i suoi discorsi».
Quel razzismo è superato?
«È un problema che non si supera mai del tutto, ma non so se la via tanto arrabbiata oggi sia giusta. Non sono abbastanza informato e non mi esprimo mai su cose che non ho compreso fino in fondo. Il Black Lives Matter lo condivido, ma mi fermo lì».
Si è mai sentito discriminato?
«Insulti sì, ma non in faccia. Tanti via social, però per strada, anche chi la pensa a quel modo e mi guarda a quel modo non mi dice niente».
Forse hanno paura, lei è alto 1 metro e 98.
«Se hai delle opinioni ti confronti, invece apparentemente tutto tranquillo. So che sotto la realtà è diversa, esiste la diffidenza e il pregiudizio. Per me solo quello che è esplicito e non credo di intimorire. La dialettica non ha bisogno di muscoli».
È nato in Italia, padre ghanese, madre di origini nigeriane ed è cresciuto con una famiglia affidataria di Como. Infanzia complicata.
«Mio padre non lo conosco, non ho memoria di lui. Mia madre, con cui sono ancora in contatto, anche senza scambi frequenti, oggi sta in svizzera. Considero genitori i due meravigliosi signori che chiamo zia e zio e ci sono stati sempre. Mi venivano a prendere al nido. Erano amici di mia madre, sono diventati subito figure di riferimento. I figli sono di chi li cresce».
Sua madre le ha dato delle motivazioni?
«Le ho intuite, in qualche modo, ha cambiato Paese, erano momenti difficili. Io non capivo le dinamiche allora. Da grande ho fatto domande solo quando avevo già trovato la mia stabilità, grazie ai miei straordinari zii-genitori».
Come hanno reagito dopo l’argento?
«Li ho portati qui. È mio dovere renderli felici, è stato un momento particolare».
Correre è mai stato scappare per lei?
«No, mai. Ho scelto la corsa, non volevo altro: ho detto no a tutti gli altri sport, a 7 anni, poi ho smesso e ricominciato».
Perché ha smesso?
«Durante l’adolescenza dovevo un po’ mettere a posto la testa. Ero irrequieto, non avevo la serietà necessaria e lo sport non ti regala niente».
Hanno detto di lei “se si allenasse davvero, sarebbe eccezionale”. Oggi si allena davvero?
«Tutti abbiamo una crescita personale che non dipende solo dall’età, io ho avuto bisogno di spazio. Qualsiasi talento non può essere un’ossessione, la passione che hai la devi anche incontrare».
Quando ha incontrato davvero i 100 metri?
«Nel 2020, gara dell’innamoramento i 150 metri a Milano, record mondiale under 23. Ho guardato il cronometro e ho pensato “la vita è questa”. I 100 metri di Tokyo li ho visti a Milano, da un amico. Ero carico, mi sarei messo a correre quella notte».
E si è trasferito a Roma per allenarsi con Claudio Licciardello, ex quattrocentista, tecnico delle Fiamme gialle.
«Lic. Non mi dimenticherò mai il giorno in cui è venuto a prendermi con la sua Mini alla stazione: “Ascolta, tu hai i numeri per fare una Olimpiadi da protagonista». Ci crede quanto me. È giovane, ha l’energia giusta, sa come parlarmi. È severo in pista, ma leggero: è il coach, non è mio fratello o mio padre. Mi migliora. Prima facevo una gara e poi mi fermavo un anno: infortuni a catena».
Che cosa è cambiato?
«La mia attenzione. Sono diventato paziente».
Si è fidanzato. Aiuta?
«Moltissimo, per la tranquillità. Valeria fa la logopedista, l’ho conosciuta via social».
Chi ha cercato chi?
«Non me lo ricordo, era il 2023, ero fermo per infortunio, andavo zero quindi i miei risultati non richiamavano attenzione».
Coppia mista, come la maggioranza di voi oggi in nazionale. Siete l’Italia che verrà o quella che già c’è?
«È naturale, io vedo atleti, persone non certo l’albero genealogico e lo status che si porta dietro. Non ci avevo fatto caso che io Valeria siamo una coppia mista. Bello, no?».
Agli Europei di Roma ha pensato di poter battere Jacobs?
«Succederà. L’ho capito due anni fa ai campionati italiani di Rieti: sono arrivato a 4 centesimi. Lo posso superare. Comunque, per la velocità azzurra lui è fondamentale. Hai il più titolato in casa, è un apripista, una spinta».
Come è la strada che porta alle Olimpiadi?
«Tortuosa, ma guardo dritto a Parigi. Non ci sono mai stato e mi piace poterla scoprire così».
Crei lo sprinter perfetto. Può prendere il meglio da chi vuole.
«Sono sedotto dalla coordinazione di Livio Berruti e correva sulla terra… Poi di Usain Bolt prendo l’elasticità, la decontrazione unica. Per la forza Asafa Powell, molto simile a Marcell e aggiungo l’accelerazione di Coleman. Mi piace la potenza che esprime a terra, la cattiveria, il dinamismo, la violenza con cui usa i piedi. Ogni centesimo di secondo è colpire e andare».
Come un pugile.
«Sì, testa bassa da vero boxeur».
È alto come Bolt, di sprinter della vostra stazza se ne vedono pochi.
«Questo fisico, se non sei Bolt, è più uno svantaggio o, meglio, devi elaborare uno stile di corsa che richiede tempo e difatti ci sono arrivato solo ora. Non mi voglio fermare più».