Corriere della Sera, 11 giugno 2024
La strana profezia sull’ultimo Papa
Innocenzo III, al secolo Lotario dei conti di Segni, fu eletto Papa nel 1198 e «regnò» fino al 1216, anno in cui morì, a Perugia dove all’epoca risiedeva la curia romana. Quando si spense aveva solo cinquantacinque anni. Nel 1891, papa Leone XIII, in segno di omaggio, fece trasportare i suoi resti dalla cattedrale di Perugia, dove era rimasto sepolto per quasi sette secoli, nella basilica di San Giovanni in Laterano. Innocenzo III venne considerato già dai tempi successivi alla sua scomparsa ma forse anche in vita uno dei Pontefici più importanti della storia della Chiesa. A dispetto della «scandalosa» crociata, la quarta, ispirata da Venezia. Missione militare indirizzata non già alla riconquista di Gerusalemme bensì contro Costantinopoli (1204) e che si concluse con il sacco della capitale dell’Impero d’oriente. Sul conto di Innocenzo III grava anche la crociata contro gli «albigesi» (o «catari»), ivi incluso il massacro di Béziers del 22 luglio 1209 in cui vennero uccisi, approssimativamente, ventimila «eretici».
Lo storico che più ha approfondito l’opera di quel Pontefice, Michele Maccarrone, in Studi su Innocenzo III (Editrice Antenore), ha messo in evidenza l’influenza che su di lui avevano avuto il canonista Uguccione di Bologna e il teologo parigino Pietro di Corbeil. Riuscì, papa Innocenzo, a stabilire il primato della Chiesa sull’Impero, quello dei chierici sui laici, nonché la supremazia papale rispetto alle altre sedi vescovili e metropolitane. «Lavoratore indefesso e tenace», scrive di lui Josef Gelmi nel libro I papi (Bur), «si rivelò dotato di un’intelligenza straordinaria, superiore a quella dei suoi contemporanei». Per di più – come gran parte degli «esseri superiori» – aveva anche, secondo Gelmi, «uno spiccato senso dell’umorismo».
Sicuramente Giovanni Maria Vian – autore dell’interessantissimo L’ultimo papa, in uscita il 14 giugno per Marcianum Press – rimase colpito nel 2010 quando lo storico Anthony Grafton scrisse sulla «New York Review of Books» che Benedetto XVI, papa Ratzinger, come pensatore era paragonabile, per importanza, proprio a Innocenzo III. E, forse, addirittura ad un altro gigante della storia della Chiesa: Leone Magno, che era stato Papa dal 440 al 461.
In un libro intervista con Peter Seewald, pubblicato tre anni dopo la rinuncia di Benedetto XVI – Ultime conversazioni (Garzanti) – Ratzinger accettò di rispondere a una strana domanda sulla «profezia di san Malachia». Profezia attribuita a Malachia O’Morgair, vescovo irlandese di Armagh, (1094-1148). Di cui però non è rimasta traccia nella biografia di Malachia ad opera di Bernardo di Chiaravalle (1090-1153) vissuto all’epoca di O’Morgair del quale fu estimatore e amico, al punto di definirlo «gioiello d’Irlanda». In realtà questo testo era stato scritto quasi sicuramente nel 1590 per favorire in conclave un cardinale (che peraltro non divenne Papa). La «profezia di san Malachia» – una serie di 112 motti in latino riferiti ad un centinaio di Papi ma anche antipapi che si conclude con la descrizione della fine del mondo ai tempi di un «ultimo Papa» – è dunque un falso. Su questo concordano tutti coloro che l’hanno studiata come, tra gli altri, Jean-Luc Maxence – I segreti della profezia di san Malachia. Misteri e destini dei papi (Rusconi) – e Gerardo Mastrullo, in Le profezie di Malachia. I papi e la fine del mondo (edizioni La Vita Felice). Un falso che iniziò a diffondersi all’epoca in cui venne stampato per la prima volta: a Venezia nel 1595.
In Ultime conversazioni papa Benedetto XVI confermava la previsione che, da teologo, aveva avanzato già negli anni Cinquanta del secolo scorso. La società occidentale e di conseguenza l’intera Europa, secondo il giovanissimo Ratzinger, «non sarà una società cristiana e, a maggior ragione, i credenti dovranno sforzarsi di continuare a plasmare e sostenere la coscienza dei valori e della vita». Qui, a sorpresa, Seewald gli chiedeva, un po’ sfrontatamente, se, in qualche modo, si considerava lui stesso come l’ultimo Papa di cui aveva parlato san Malachia (o chi per lui). E Ratzinger, anziché respingere sdegnosamente la domanda (o cercare di eluderla), aveva risposto con l’ironia di Innocenzo III. «Tutto può essere», aveva detto. Ma poi, da buon conoscitore dell’argomento, aveva aggiunto che «probabilmente» questa profezia era nata nei circoli intorno a Filippo Neri (1515-1595), una figura importantissima nella storia della seconda metà del Cinquecento. Grande amico di Carlo e Federico Borromeo, Filippo Neri aveva guidato papa Clemente VIII alla riconciliazione con Enrico IV di Francia. Il Papa avrebbe voluto compensare Filippo Neri con la nomina a cardinale, ma lui rifiutò. In compenso fu beatificato nel 1615, ad appena vent’anni dalla morte, e proclamato santo dopo soli altri sette anni (1622). Da Gregorio XV.
All’epoca di san Filippo Neri, aveva aggiunto Ratzinger, «i protestanti sostenevano che il papato fosse finito e lui voleva solo dimostrare, con una lista lunghissima di Papi, che invece non era così». Non per questo, però, aggiungeva Ratzinger, «si deve dedurre che finirà davvero» in quel modo. Piuttosto che «la sua lista non era ancora abbastanza lunga!».
Curiosamente nella monumentale biografia, di oltre mille pagine, che successivamente lo stesso Seewald ha dedicato a Ratzinger – Benedetto XVI. Una vita (Garzanti) – l’autore ha tralasciato l’episodio. Probabilmente perché ne aveva già parlato nel libro precedente. Però Seewald, nella corposa biografia di Ratzinger, torna sulla figura del già citato san Carlo Borromeo che per papa Benedetto era «l’espressione classica di una vera riforma». Vera riforma che consiste in «un rinnovamento che conduce in avanti proprio perché insegna a vivere in modo nuovo i valori permanenti, tenendo presente la totalità del fatto cristiano e la totalità dell’uomo». Borromeo, secondo Ratzinger, aveva «ricostruito – restaurato – la Chiesa cattolica, la quale anche dalle parti di Milano era ormai pressoché distrutta». Senza «per questo essere tornato al Medioevo». Al contrario san Carlo creò «una forma moderna di Chiesa». Il carattere dell’azione riformatrice di Borromeo, secondo Ratzinger, si era manifestato per esempio nel fatto che «soppresse un ordine religioso ormai al tramonto ed assegnò i suoi beni a nuove comunità vive». Facendo riferimento ai residui del passato che lui stesso aveva tante volte criticato nella Chiesa, il cardinale chiese provocatoriamente: «Chi oggi possiede un coraggio simile, da dichiarare definitivamente appartenente al passato ciò che è interiormente morto dentro (e continua a vivere solo esteriormente) e da affidarlo con chiarezza alle energie del tempo nuovo?». Quel che accade ai nostri giorni, proseguiva Ratzinger, è che «nuovi fenomeni di risveglio cristiano vengono osteggiati proprio da parte dei sedicenti riformatori». Ed è questo il punto su cui Vian incentra la propria attenzione.
In fondo Ratzinger, scriveva Seewald, «manifestava più radicalità e disponibilità alla riforma della maggior parte dei suoi critici». I quali, come lui stesso notava, «difendono spasmodicamente delle istituzioni che continuano ad esistere ormai solo in contraddizione con sé stesse». Nell’azione riformatrice di Carlo Borromeo, Ratzinger intravedeva invece «qual è il presupposto essenziale per un simile rinnovamento». San Carlo «poté convincere gli altri perché lui stesso era un uomo convinto». Poté «resistere con la sua certezza in mezzo alle contraddizioni del suo tempo perché egli stesso le viveva». E le poteva vivere perché era «cristiano nel più profondo senso della parola», cioè era «totalmente centrato su Cristo». Ristabilire «questa integrale relazione a Cristo è quel che veramente conta». Quasi un autoritratto.
Poi Ratzinger aggiungeva l’impressione che «tacitamente» si stesse «perdendo il senso autenticamente cattolico della realtà “Chiesa”» senza che nessuno abbia il coraggio di respingerlo «espressamente». Molti, sosteneva Benedetto XVI, tre anni dopo aver lasciato il «trono», non credono più che la Chiesa sia «una realtà voluta dal Signore stesso». Anche presso alcuni teologi «la Chiesa appare come una costruzione umana, uno strumento creato da noi e che quindi noi stessi possiamo riorganizzare liberamente a seconda delle esigenze del momento». Ma in verità «dietro la facciata umana sta il mistero di una realtà sovrumana sulla quale il riformatore, il sociologo, l’organizzatore non hanno alcuna autorità per intervenire». Se la Chiesa fosse solo «un nostro artifizio», anche i contenuti della fede finirebbero per «diventare arbitrari». In questo modo, il Vangelo finisce per diventare una sorta di «progetto di liberazione-sociale», o di «altri progetti storici, immanenti, che in apparenza possono sembrare anche religiosi, ma nella sostanza sono ateistici». Considerazioni che andavano ben oltre l’iniziale riflessione su san Carlo Borromeo.
Vian adesso torna su questi temi con un dotto excursus non privo di notazioni assai originali. E dense di implicazioni. Particolare attenzione è dedicata dall’autore a Escatologia. Morte e vita eterna (Editore Cittadella), il libro che raccoglieva le iniziali lezioni di Ratzinger a Friburgo nel 1957. Libro che Benedetto XVI ripubblicò molte volte, ognuna con delle aggiunte e degli approfondimenti. L’ultima delle quali, nel 2007, due anni dopo essere stato eletto Papa. Con una nuova prefazione. La sua interpretazione parte da Platone, Aristotele, Tommaso d’Aquino, ma tiene conto anche di alcuni tra i maggiori biblisti e teologi suoi contemporanei come Karl Barth autore dell’Introduzione alla teoria evangelica (Edizioni San Paolo). E poi Rudolf Bultmann che con Karl Jaspers scrisse Il problema della demitizzazione (Morcelliana), Oscar Cullmann con il suo Cristo e il tempo. La concezione del tempo e della storia nel cristianesimo primitivo (Edb), Charles Harold Dodd, autore dell’Interpretazione del quarto vangelo (Paideia). Ma anche quelle che Vian definisce «singole pepite d’oro» nelle «varie teologie della liberazione e della rivoluzione». Con un particolare «metodo impegnativo», Ratzinger, scrive Vian, «ridimensiona l’imminenza della fine del mondo che secondo molte interpretazioni moderne sarebbe stata centrale nella predicazione di Gesù». E nella profezia di san Malachia. Il suo annuncio del «regno di Dio» è infatti «improntato a un senso di continua attualità e non è legato né a luoghi né a tempi». Dal momento che si realizza in Gesù che è lui stesso il Regno, secondo una bella espressione di Origene (185-253 d.C.), uno dei maggiori pensatori cristiani dell’antichità.
Nel Ratzinger di Vian spicca soprattutto il non comune contributo teologico che colloca quel pontefice «in una categoria quasi per nulla rappresentata nella storia del papato». E «in una posizione di assoluto rilievo», come mostrano le sue riflessioni sulle «realtà ultime» e sull’ebraismo. Importantissime queste ultime. A dispetto degli «stereotipi a lui ostili tenacemente applicati soprattutto in Germania sin dalla fine degli anni Sessanta del secolo scorso». E che proseguirono anche dopo la pubblicazione nel 2019 di un suo «denso e innovativo studio sull’ebraismo», accompagnato da un successivo scambio di lettere con il rabbino capo di Vienna, Arie Folger. Il tutto è racchiuso nel libro Ebrei e cristiani (San Paolo Edizioni). Il pensiero di Ratzinger, prosegue Vian, «è fondato rigorosamente sulla Bibbia, che è ebraica e cristiana», e «sulla tradizione cristiana costituitasi nel confronto con il pensiero greco». Ma, secondo il teologo bavarese divenuto Papa, questa tradizione è viva «proprio perché è nutrita dalla storia, con essa si è sempre confrontata e vuole confrontarsi». Perciò «ha la pretesa e la possibilità di proporre la sua ragione e le sue ragioni a una contemporaneità che nei confronti delle religioni si mostra intollerante». In qualche modo «rinnovando lo scontro tra le pretese idolatriche dell’intolleranza ellenistica e la resistenza della fede monoteista giudaica al tempo dei Maccabei».
«Lucida», secondo Vian, è stata anche «la diagnosi del Papa a proposito dell’estinguersi della fede nei deserti di questo mondo e dello scandalo intollerabile degli abusi». «Debole e per nulla sostenuto» è stato invece il suo governo. Se non «addirittura contrastato da collaboratori che si sono rivelati non all’altezza del pontefice». O anche «infedeli». Quanto all’interrogativo sull’ultimo Papa, secondo Vian, «resta per il momento senza risposta». Il che ci costringe a lasciare in sospeso il giudizio – per quel che riguarda lo storico Vian impossibile da dare in senso compiuto, se non per qualche cenno, a proposito di un Papa che è in vita e assai attivo – sul pontificato di papa Bergoglio.