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 2024  giugno 11 Martedì calendario

Intervista a Giobbe Covatta

Giobbe (Covatta), nome biblico, che poi la Bibbia è stata la sua fortuna.
«È un soprannome che mi porto fin dai tempi antichi, ovvero dai miei compagni di scuola, ma non se lo ricorda nessuno come è uscito. Ho una sola teoria. A 14 anni avevo già barba e baffi. Con questa spiccata pelosità infantile l’alternativa era tra Giobbe e Orso».
Ha cominciato nei villaggi turistici. Come tanti. Solo che lei era istruttore di vela.
«Ero uno sportivo, non si direbbe eh? Vengo da tradizioni marittime, ho iniziato ad andare in barca prima che in bicicletta, ancora adesso se mi chiedono qual è la cosa che so fare meglio rispondo andare in barca, anche se è molto probabile che non sia vero».
Da istruttore ad animatore, come è successo?
«Una volta in un villaggio si era rotto un meccanismo che serviva agli animatori per fare uno spettacolo. Così mi hanno dato un microfono e mi hanno spinto sul palco a spiegare cosa stava succedendo. Io l’ho fatto a modo mio e la gente si divertiva molto, la sensazione che ne ho ricevuto è stata un piacere personale: ho scoperto che far ridere gli altri è bello».
Nel 1990 trovò il trampolino di lancio nel «Maurizio Costanzo Show». Come ci arrivò?
«Qui si aprono decine di ipotesi diverse. Ognuno all’interno della redazione del programma rivendica la scoperta, a partire da Maurizio che in realtà manco sapeva chi ero».
Come le venne l’idea della rivisitazione della Bibbia in chiave umoristica?
«Mi è sempre piaciuto giocare su quelle cose che tutti conoscono ma nessuno conosce. Siamo il popolo più religioso del mondo, il Papa sta qua da noi, ma non trovi manco uno che ha letto la Bibbia... Siamo appassionati di cose bellissime di cui non sappiamo un cazzo, e a me piace lavorare su questo. Così nacque l’idea di Mosè che si tuffa nel Mar Rosso proprio mentre si stanno aprendo le acque e si becca una capocciata».
Fu anche «scomunicato» dalla Chiesa.
«Un vescovo mi mandò una lettera con tanto di timbro di cera lacca, in cui diceva che ero fuori dalla famiglia della Chiesa. Non che la cosa mi abbia preoccupato, anzi non me ne fotteva proprio».
Quasi 200 puntate (198), lei dopo Maurizio Costanzo è quello che ne ha fatte di più. La prima?
«Non si scorda mai. Soprattutto la ricordo per come Maurizio la chiuse: questa trasmissione è fortunata perché a volte si incontrano persone come Giobbe Covatta. Una dichiarazione d’amore in diretta, da allora abbiamo sempre avuto un rapporto affettuosissimo».
Cosa la colpiva di lui?
«Era straordinario soprattutto per un motivo: era di una curiosità assoluta, quindi poteva ospitare un premio Nobel o un sordomuto ed era in grado di tirare fuori 90 minuti di intervista».
A telecamere spente come era?
«Era di una cattiveria corrosiva, insieme parlavamo malissimo di un sacco di gente, io mi divertivo come un matto. Maurizio ne prendeva uno e lo faceva nuovo nuovo. Era non solo intelligente, ma anche molto divertente».
Nel 2001 ha partecipato anche all’«Ottavo nano». Il Guzzanti che non conosciamo?
«Non lo conosco tanto nemmeno io. È uno che se gli metti un naso finto è divertentissimo, ma quando non ce l’ha è di una timidezza disarmante. Senza travestimento – vale per tanti attori, me compreso – se non hai una copertura dietro la quale nasconderti, spesso stai zitto ed eviti di fare commenti. Credo che uno faccia il comico quando non ha la voglia e il coraggio di mettere in piazza i propri sentimenti. E io sono molto pudico sui miei sentimenti».
La gavetta a Milano. Ha vissuto in una portineria, eravate in 11...
«Sono stati anni in cui mi sono divertito come un matto. La portineria era casa mia, ma poi ospitavo altri dieci comici che non vivevano a Milano e per comodità si piazzavano da me. Come Iacchetti che abitava a Luino e non poteva tornare a casa tutte le sere. In quel periodo chiudevamo le finestre mentre tutta Milano le apriva. L’unica eccezione era la domenica, il giorno in cui ci svegliavamo un po’ presto, un amico metteva la radiosveglia con Tutto il calcio minuto per minuto alle 3 del pomeriggio».
Dallo «Zelig» 2008 non ha fatto più tv. Cosa è successo?
«Non è successo niente, me ne sono allontanato io. La tv non mi manca perché non mi è mai piaciuta tanto, anche se le riconosco il grande pregio della popolarità. Non c’è nessun giudizio etico o snobista, ma ad esempio non farei mai quello che fa Paolantoni in tv, ma non perché penso che lui faccia male a farlo, ma semplicemente perché a me non piace farlo: non lo farei con entusiasmo».
Lei da anni è ambasciatore di Amref, a sostegno dell’Africa.
«Quando un responsabile me ne parlò, dissi subito: Amref è cacofonico. Perché non lo chiamiamo Viva l’Afrìca? Non ha voluto cambiare nome ma mi ha detto: sai che sei bravo a fare ‘ste stronzate? È cominciata così. Io cerco di fare il comunicatore, anche se ho fatto pure le vaccinazioni ai bambini, ma non è il mio mestiere. Ecco: la mia presenza garantisce comunicazione più che una guarigione sicura».
Ora con sua moglie Paola Catella ha pubblicato «Il commosso viaggiatore».
«Sono l’unico scrittore al mondo senza computer, ma noi abbiamo affinato una nostra tecnica: io ammucchio una manica di scemenze, lei le traduce in qualcosa di senso compiuto. Il libro è un riassunto dei nostri 30 anni di viaggi in Africa».
Un’immagine?
«La prevedibilità non è prevista in Africa: è questo quello che mi piace. Eravamo in mezzo alla savana. Vedo un puntino da lontano che si avvicina, era un guerriero, con scudo, lancia e un copricapo di penne. Arrivava verso di noi dall’orizzonte correndo – poi ti chiedi come mai sono forti alle Olimpiadi, questi corrono sempre —, ci è passato di fianco e non ci ha nemmeno guardato, ha continuato a correre, fino a quando è diventato un puntino nero che si è perso nell’orizzonte dall’altra parte. E allora ti chiedi: ma questo da dove cazzo viene, e soprattutto dove cazzo va?».