Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2024  giugno 11 Martedì calendario

La battaglia per la lingua

Chi riesce a controllare la lingua decide ciò che penserà la gente. Per sapere come questo accade, bisogna conoscere davvero il funzionamento della lingua, e i modi in cui influenza il nostro modo di pensare. Edoardo Lombardi Vallauri insegna Linguistica all’Università Roma Tre. Nel suo ultimo libro, Le guerre per la lingua. Piegare l’italiano per darsi ragione (Einaudi, pagine 130, euro 13,00), parla di come gli italiani perseguono la «difesa dell’italiano dall’inglese», e delle battaglie sul presunto sessismo del lessico e della grammatica. La sua tesi di fondo è che per parlare sensatamente di lingua occorra una competenza non superficiale.
Ma oggi dicono continuamente la loro anche gli incompetenti. Perché?
Perché è venuto meno il Filtro della Costosità: oggi non esistono più svantaggi per chi diffonde informazioni di cattiva qualità. Già Eco ha notato che i social media danno «diritto di parola a legioni di imbecilli».
Su che binari viaggiano oggi linguaggio e ideologia?
Un tempo parlavamo soprattutto di questioni importanti, perché portanti, politiche, economiche, mentre oggi la nostra società discute di problemi sempre più piccoli. Il nuovo movente universale è fare bella figura: perbenismo e moralismo imperanti propugnano idee sul mondo e la vita che servono a fare esibizione di superiorità etica. Si va in cerca di comportamenti da definire sbagliati per affermare la propria rettitudine. Anche sul linguaggio è così si condanna chi parla “male”, più che per tutelare la lingua, per mostrarsi migliori di altri.
Riguardo all’inglese lei dice che il campo di battaglia siamo noi e non la lingua, e che molti sono fuorviati da una specie di fierezza patriottica.
Domandiamoci quali sono gli scopi per “proteggere” l’italiano dall’inglese. Pensiamo a parole come computer o film; a molte parole possiamo trovare alternative, ma la verità è che alcune parole straniere ci fanno un favore, anche i prestiti che sembrano meno necessari, perché aggiungono nuove sfumature di senso. Noi vorremmo essere più bravi e più importanti degli anglosassoni, ma non ci riusciamo, e ci dà fastidio quel segno esteriore della nostra minorità che è il prendere le loro parole. Ma non importare parole per non ammettere quanto siamo dominati è come coprire di vernice un muro infiltrato d’acqua.
Infatti c’è anche un lato ironico con cui spesso sui social viene trattato il tema dell’inglese, per esempio riguardo al lavoro: è il caso delle job description di lavori che in inglese assumono immediatamente una sorta di autorevolezza, prestigio.
Personalmente ho gusti molto diversi da quelli che utilizzano continuamente termini come performance, step by step, corporate, meeting, ma per la cultura che riflettono, non perché danneggerebbero l’italiano. Che cosa significa usare bene la lingua? Esprimere in modo efficace ciò che si pensa, trasmettere fedelmente i propri contenuti; quando si ha quella mentalità aziendalista e si usa quel linguaggio, si sta usando la lingua benissimo per esprimere quella mentalità. A ben guardare la cosa da criticare non è quella lingua, semmai quella mentalità ingenuamente affaristica, che la lingua esprime con perfetta efficacia.
Nel secondo capitolo scoperchia il vaso di molte diatribe contemporanee parlando di sessismo della lingua, lingua del patriarcato e maschile sovraesteso.
Le battaglie fra gruppi contrapposti si riflettono spesso nel linguaggio. Non è la lingua a non poter sopportare ministra e avvocata, semmai ci sono persone che hanno qualcosa contro le donne che ricoprono quei ruoli; se non c’è resistenza culturale e nei fatti, non c’è problema linguistico: la lingua riflette sempre la nostra concettualizzazione della realtà.
Per la Giornata della terra tenuta ad aprile, Zanichelli ha realizzato una ricerca su come il cambiamento climatico influenzi la lingua, con nuova terminologia entrata nel dizionario Zingarelli. Saper raccontare con precisione quel che accade oggi aiuta a comprendere meglio come agire domani?
È davvero un macro-tema il rapporto tra lingua e realtà. La lingua cambia perché si introducono parole per cui all’inizio a volte storciamo il naso. In ogni epoca ci sono nuove cose, nuove porzioni di realtà da nominare, che rendono necessarie nuove parole. Oppure le parole vengono estese a nuovi significati. Ad esempio: la parola riscaldamento prima si riferiva solo a quello di casa, ora si estende al riscaldamento globale.
Treccani nel 2022 ha presentato il primo vocabolario in Italia che inserisce a lemma forme femminili di nomi e aggettivi accanto a quelle maschili. Si sono anche eliminati gli stereotipi di genere nelle definizioni ed esempi, promuovendo la parità a partire dalla lingua. Cosa ne pensa?
Cosa significhi che l’italiano e molte altre lingue abbiano il maschile non marcato, cerco di spiegarlo nel libro. Di recente si è fatto in modo che questo urti la sensibilità di molti, ma questo aspetto della grammatica non determina una sensazione di superiorità di per sé: semmai lo percepiamo come affine a una vera discriminazione quando questa è già nella realtà, ed è gratificante dare la colpa alla lingua, perché consente di mostrarsi virtuosi a costo zero. Il maschilismo c’è già nella cultura e nella società, anche quelle che parlano lingue senza genere. Però la contestazione sulla lingua, se fatta in modo intelligente, ha comunque un valore dimostrativo importante, come scendere in piazza.
Su questo tema lei dedica anche un capitolo ad asterisco e schwa e parla di incompatibilità strutturali con la lingua.
I cambiamenti linguistici strutturali possono avvenire solo se i parlanti non se ne rendono conto. Nel libro si spiega perché, qui posso solo dire che dipende dal fatto che per parlare a un ritmo normale bisogna produrre le parole associandole ai significati che abbiamo in mente in modo automatico, e non riflettendo su come costruire ciascuna di esse. Di solito passa una generazione tra chi cambia un tratto linguistico senza saperlo, e chi acquisisce dai genitori la forma che essi hanno cambiato senza accorgersene. Prendiamo la proposta di sostituire le vocali finali con schwa: i linguisti sanno che non può accadere, ma ci sono persone a cui in fondo questo non importa, perché a muoverle è soprattutto il desiderio di far parlare della questione.

Parliamo di come sta cambiando il linguaggio nel mondo dell’informazione. Qual è la direzione a suo avviso?
Certamente c’è una spinta generale alla banalizzazione; allargare la base di lettori è una cosa buona, ma di contro la profondità diminuisce. Oggi prevale la richiesta di essere solo intrattenuti. In questo clima fare giornalismo serio può diventare un problema, c’è quasi un obbligo di andare incontro, e questo si traduce in un linguaggio che semplifica la realtà. I giornalisti, come tante altre professioni, subiscono il cambiamento.