il Fatto Quotidiano, 11 giugno 2024
I colori di Borges
Nel corso delle mie molte, troppe conferenze, ho osservato che si preferisce il personale al generale, il concreto all’astratto. Perciò comincerò riferendomi alla mia modesta personale cecità. Modesta, in primo luogo, perché è totale a un occhio e parziale all’altro. Posso ancora riconoscere alcuni colori, posso ancora riconoscere il verde e il blu. C’è un colore che non mi è stato infedele, il giallo. Ricordo che da bambino (se mia sorella è qui lo ricorderà) mi trattenevo davanti a certe gabbie del giardino zoologico del barrio Palermo, precisamente quelle della tigre e del leopardo. Mi fermavo davanti all’oro e al nero della tigre; ancora oggi il giallo mi accompagna. Ho scritto una poesia intitolata L’oro delle tigri nella quale mi riferisco a questa amicizia.
Voglio precisare una cosa che tendenzialmente si ignora, ma non so se sia generalizzata. La gente immagina il cieco chiuso in un mondo nero. C’è un verso di Shakespeare che giustificherebbe tale opinione: «Looking on dark ness which the blind do see», “Guardando l’oscurità che vedono i ciechi”. Se per oscurità intendiamo il colore nero, il verso di Shakespeare è falso.
Uno dei colori che i ciechi (o almeno questo cieco) rimpiangono è proprio il nero; l’altro è il rosso. Le rouge et le noir sono i colori di cui sentiamo la mancanza. Io, che ero abituato a dormire in completa oscurità, ho sofferto a lungo di dover dormire in questa specie di foschia, di foschia verdognola o azzurrina e vagamente luminosa che è il mondo del cieco. Avrei voluto adagiarmi nell’oscurità, appoggiarmi all’oscurità. Il rosso lo vedo come un vago marrone. Il mondo del cieco non è la notte che la gente immagina… Il cieco vive in un mondo abbastanza scomodo, un mondo indefinito dal quale emerge qualche colore: nel mio caso ancora il giallo, ancora il blu (anche se il blu può essere verde), ancora il verde (anche se il verde può essere blu). Il bianco è sparito o si confonde col grigio. Quanto al rosso, è sparito del tutto, ma spero prima o poi (sto seguendo una terapia) di migliorare e di poter vedere questo straordinario colore, questo colore che risplende in poesia e che ha nomi così belli in molte lingue. Pensiamo al tedesco scharlach, all’inglese scarlet, al nostro escarlata, al francese écarlate. Termini degni di questo straordinario colore, il rosso. Per il giallo, invece, lo spagnolo amarillo ha invece un che di debole, ma abbiamo il francese jaune, che ha la stessa origine, l’inglese yellow, così simile ad amarillo – che in spagnolo antico credo fosse amariello…
Per le finalità di questa conferenza bisogna che cerchi un momento patetico. Diciamo, quello in cui mi resi conto di avere ormai perduto la vista, la mia vista di lettore e di scrittore. Perché non precisare la data, così degna di memoria? Il 1955…
Nel corso della vita ho ricevuto molti onori immeritati, ma uno mi ha rallegrato più d’ogni altro, la direzione della Biblioteca Nacional. Ne fui incaricato, per motivi più politici che letterari, dal governo della Revolución Libertadora (il golpe militare che destituì Perón nel ’55, ndr)… Non avevo mai sognato di poter diventare direttore della Biblioteca. I miei ricordi erano diversi. Ci andavo con mio padre, di sera. Lui, che era professore di psicologia, chiedeva qualche libro di Bergson o di William James, i suoi autori preferiti, o di Gustav Spiller. Io, troppo timido per chiedere un libro, cercavo un volume della Encyclopaedia Britannica o delle enciclopedie tedesche di Brockhaus o di Meyer. Ne sceglievo uno a caso, lo estraevo dagli scaffali laterali, e leggevo. Ricordo una sera in cui mi sentii ricompensato perché avevo letto tre voci: sui druidi, sui drusi e su Dryden, un dono delle lettere DR…
Ottenni l’incarico alla fine del 1955; presi servizio, chiesi quanti fossero i volumi, mi dissero che erano un milione. Verificai in seguito che erano novecentomila, un numero più che sufficiente.
A poco a poco mi resi conto della strana ironia degli eventi. Io avevo sempre immaginato il Paradiso sotto la specie di una biblioteca. Altri pensano a un giardino, altri a un palazzo. Io stavo lì. Ero, in qualche modo, il centro di novecentomila volumi scritti in lingue diverse. Constatai che a stento riuscivo a decifrarne i frontespizi e i dorsi. Fu allora che scrissi la Poesia dei doni, che inizia: «Nessuno a lacrime riduca o accuse/ questo attestato dell’alta maestria/ di Dio, che con magnifica ironia/ mi ha destinato insieme libri e notte». Due doni che si contraddicono: i molti libri e la notte, l’incapacità di leggerli.
Immaginai che l’autore della poesia fosse Groussac, perché anch’egli era stato direttore della Biblioteca, e anch’egli era cieco. Groussac fu più coraggioso di me; tacque. Ma pensai che c’erano momenti in cui le nostre vite coincidevano, giacché entrambi eravamo diventati ciechi e entrambi amavamo i libri. Lui aveva onorato la letteratura con opere certo superiori alle mie. Ma in fondo eravamo tutti e due uomini di lettere e percorrevamo la stessa biblioteca di libri proibiti.
© 1995 Mariana Del Socorro Kodama, Martín Nicolás Kodama, María Victoria Kodama, Matías Kodama, María Belén Kodama/
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