Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2024  giugno 11 Martedì calendario

Intervista a Ceciclia Bartoli

Applaudita, globalizzata e santificata (sì, esistono i “bartoliani” devoti), Cecilia Bartoli insiste nell’essere la sovrana della lirica. È ancora l’unica cantante al mondo che può permettersi d’imporre progetti iper-colti alla propria casa discografica, dettando ogni condizione. Poi dimostra sempre di aver ragione, poiché vende decine di milioni di dischi. A forza d’intelligenza artistica e di bulimia del fare, l’artista nata a Roma nel ’66 – che non ha perso il suo piglio da ragazza – ha introdotto una fetta di ascoltatori enorme a rarità vivaldiane, preziosismi barocchi, autori ignoti o trascurati eppure stupendi, arie dei castrati…. Insomma Cecilia, che sta sull’onda del successo da un quarantennio, è un portento nel lanciare storie strane rendendole pop. E tra un’agilità vocale e l’altra, ha vinto cinque Grammy, gli Oscar della musica, e «solo Luciano ne ha avuti altrettanti», dice riferendosi a Pavarotti.
Cecilia parla accomodata dietro la scrivania manageriale del suo ufficio nell’Opéra di Monte Carlo, di cui tiene il timone con esiti favolosi: si sta avviando alla sua terza stagione di direttrice del teatro monegasco. In più è l’artefice del programma del Festival di Pentecoste a Salisburgo, che conduce dal 2012 con risultati altrettanto brillanti. Non solo è una star indiscussa della scena, ma come organizzatrice sa portare tanto pubblico a teatro. Per un verso eccita i melomani con la sua coloratura e i suoi arabeschi virtuosistici. Per un altro edifica abilmente i cartelloni di cui è responsabile, ottenendo continui sold out.
Qual è la strategia?
«Proporre un repertorio lontano presentandolo in cornici e abiti moderni, e mescolare a tali novità opere con regie tradizionali. Trovare un giusto mix tra diversi ingredienti. Contare su interpreti di lusso, cantanti meravigliosi: a Monaco nel prossimo round ci saranno Pretty Yende, Anna Netrebko, Roberto Alagna, Jonas Kaufmann, Vittorio Grigolo… Cerco di proseguire nel solco della storia di questo bellissimo teatro affacciato sul mare che è simbolo di mondanità e cultura per il Principato. Ospita anche il Casinò e il suo palcoscenico ha accolto l’arte ai massimi livelli. Vi sono passati Caruso, Gigli, Lina Cavalieri, Sarah Bernhardt, Diaghilev con Nijinsky... Vi hanno avuto luogo debutti importanti come quello de La rondine di Puccini e de L’Enfant et les sortilèges di Ravel, della cui prima assoluta a Monte Carlo cade il centenario nel marzo del ’25.
Perciò ho inserito questo lavoro nel programma della stagione 2024-25, così come vi ho messo La rondine, che in ottobre sarà il primo tassello di un festival pucciniano con quattro titoli. Tra i molti appuntamenti sono previsti una nuova produzione dell’opera di Mozart La clemenza di Tito, a cui parteciperò nel ruolo di Sesto, e un Oro del Reno di Wagner eseguito per la prima volta con strumenti d’epoca».
Wagner suonato con strumenti originali? Mai sentito…
«Alcuni sono autentici, altri sono copie esatte. Dal punto di vista della sonorità sarà una sorpresa questa produzione diretta da Gianluca Capuano, che guida l’ensemble Les Musiciens du Prince, fondato da me qui a Monaco. I violini di questo Oro del Reno avranno corde non di metallo, ma di budello, con un suono trasparente e assai diverso da quello monumentale a cui siamo abituati nell’ascolto di Wagner. I
o credo in queste operazioni: oggi il repertorio barocco si fa con gli strumenti d’epoca, svolta che ne ha stimolato la rinascita».
La sua fama si è innestata nel revival del barocco, ingigantendolo. Perché oggi questa musica piace tanto?
«Perché è diretta: comunica in modo esplicito. Parla ai cuori. Certe pagine di Händel e di Vivaldi ci toccano senza passare dalla testa. E poi ha una varietà ritmica che conquista i giovani. È anche vicina alla contemporaneità. Ci sono analogie tra certe antiche voci umane accompagnate dal liuto e un cantante pop come Ed Sheeran che canta suonando la chitarra».
Come sono nati Les Musiciens du Prince?
«A metà Settecento, per le zarine russe, lavoravano compositori come Paisiello e Cimarosa. Qualche anno fa partii alla ricerca delle loro musiche scritte in Russia e siccome odio l’aereo presi una nave rompighiaccio che dalla Germania raggiungeva San Pietroburgo. Era marzo, tutto gelato, sulla nave solo camionisti.
Mangiavo con loro a mensa e fu fantastico.

Nella Biblioteca del Teatro Mariinskij scovai le partiture degli italiani con le quali nel ’14 incisi il disco Saint Petersburg. Poi ho cercato una corte dove si potesse realizzare il sogno di un organico formato dai migliori musicisti internazionali con strumenti antichi, capaci di rinnovare le tradizioni reali e imperiali del 17esimo e 18esimo secolo. Il Principe Alberto II e la Principessa Carolina di Hannover hanno abbracciato l’iniziativa. In autunno coi Musiciens saremo nelle maggiori città europee con l’Orfeo ed Euridice di Gluck, dove canterò come Orfeo».
Il suo rapporto con l’Italia? In patria non canta quasi mai…
«L’Italia ha una bellezza tale che è un Paese senza cui non si può vivere. Ma come si fa a lavorarci? È tutto così folle! Sarò comunque coi Musiciens a Cremona il 23 giugno, nella serata di chiusura del Monteverdi Festival, per omaggiare Claudio Monteverdi, grande padre dell’opera lirica».