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 2024  giugno 11 Martedì calendario

Martin Parr, il fotografo che scatta spesso brutte foto

Se volessimo a tutti i costi incasellarlo in una serie di aggettivi, diremmo che Martin Parr, dal vivo, è come le sue foto: ironico, imprevedibile, coinciso. L’occasione di incontrarlo è Short & Sweet,una sorta di retrospettiva curata da lui stesso per il Mudec di Milano (fino al 30 giugno). Composta da centinaia di immagini, dai primi bianchi e neri alle realtà turistiche, pacchiane e ipercolorate, del mondo occidentale, questa mostra è la celebrazione di uno dei fotografi più conosciuti al mondo. Tuttavia, si apre con quello che meno ci si aspetta, da uno come Parr, ovvero un autoritratto che, in quest’occasione, sembra la sovraesposizione tra fotografo e curatore: «In realtà le due cose si accavallano. Alcune di queste fotografie provengono da lavori editoriali, altre dalla moda, oppure da cose che faccio per conto mio. Ho deciso di metterle insieme in un unico, grande, contenitore» dichiara l’artista, passeggiando tra gli spazi della sua mostra.
Davanti ai bianchi e neri, sorride: «Volevo fare il fotografo da quando avevo quattordici anni. Il mio stile, quello che tutti conoscono, l’ho creato però col bianco e nero. Poi, certo, è arrivato il colore e da quel momento in poi, tutto è cambiato» dice e, mentre avanziamo, c’è come un’esplosione, improvvisa, di colore. Nessuno ce ne vorrà ma, certo, i bianchi e neri sono strepitosi, eppure, quando ci si immerge in quel carnevale che sono le sue immagini coloratissime, il suo marchio di fabbrica, si ha la sensazione di entrare nelle storia della fotografia. «È successo tra l’83 e l’86. Credo sia stato quello il momento in cui ho scoperto di avere una voce tutta mia» confessa. Qualche anno dopo – era l’inizio degli anni ’90 – il MoMA di New York presentò il suo lavoro in una mostra dedicata ai fotografi sociali inglesi dell’epoca Thatcher. Fu, ovviamente, un trionfo e lo stile di Parr si diffuse con la velocità di un virus. Ipercolorato, ipercopiato: «È difficile descrivere la differenza tra una buona e una cattiva foto» dice, guardandosi attorno. «La senti, quella differenza, poi impari a conoscerla. Una cosa è certa: bisogna capire una brutta foto per poterne apprezzare una buona. Quando vedi una bella fotografia, sai che ha un certo effetto emotivo su di te». Cosa succede, chiediamo allora, quando si trova davanti a una foto per così dire riuscita? «Succede che divento allegro – risponde d’istinto – perché significa che ho visto qualcosa che un altro fotografo ha creato in relazione al suo soggetto. Per quel che mi riguarda, vedere una bella foto significa crescere, imparare qualcosa. Le facciamo tutti, le brutte foto».
Viene da non credergli, sentendolo, eppure anche lui, assicura più volte, scatta immagini brutte. Se per Raymond Depardon la fotografia ha due tempi, quello dello scatto e quello della pubblicazione, anche per Parr, più o meno, funziona così. «Il tempo rende le foto più interessanti, non c’è dubbio. È davvero importante, oggi, capire ciò che è buono e ciò che non lo è. Ci sono così tante immagini spazzatura, in giro» prosegue. Su Internet, a suo avviso, ce ne sono milioni, caricate ogni giorno. «Eppure sono immagini importanti: dobbiamo vedere tutte le foto possibili, anche quelle orribili, per capire, viceversa, una foto bella. Abbiamo bisogno di tutti gli errori possibili. Io, ci tengo a ribadirlo, scatto una quantità impressionante di foto brutte per ottenerne una buona» spiega.
Tempo fa, ha dichiarato che, se sivuol davvero capire un Paese, bisogna ascoltare i comici invece che i sociologi. L’ironia, d’altronde, è, insieme al colore, il suo trademark. «Credo che in Inghilterra ci sia una tradizione di humour, di commedia, nella quale mi ci ritrovo perfettamente. Se si prendesse il mondo troppo sul serio, sarebbe tutto deprimente» dice, ragionando sui soggetti delle sue opere e sul suo modo di esprimersi, impertinente e scherzoso, che definisce però mischievous (letteralmente: birichino, dispettoso). Già presidente dell’agenzia Magnum e pluripremiato ovunque, era giovanissimo, come dicevamo, quando capì che la sua strada era la fotografia. Ma il successo, dice, è una conseguenza di un certo modo di vedere il mondo: «Se oggi un quattordicenne mi chiedesse cosa deve fare per diventare un fotografo di successo, gli direi che, probabilmente, con queste intenzioni fallirebbe già in partenza» dichiara. Dopo un po’, aggiunge: «Quello che un giovane fotografo dovrebbe fare, secondo me, è trovare un soggetto che sente forte, uno con cui si sente, come dire, connesso, ed esplorare quella connessione. È questo l’obiettivo del fotografo». La gente, continua, pensa che sia molto semplice scattare una foto e il motivo di questo malinteso è semplice quanto banale: «È che, in un certo senso, farefoto è facile. Basta prendere una macchina e scattare, non bisogna nemmeno più pensare all’esposizione, si deve solo premere un pulsante. La parte più difficile, quella che la maggior parte dei fotografi non riesce a realizzare, è trovare una storia e raccontarla, identificare un soggetto e creare un legame». Lui, quel legame, l’ha chiaramente trovato in una routine fotografica che, in fin dei conti, sembra tutt’altro che complicata. «Beh, io esco e vado a scattare. Vado agli eventi, sulle spiagge, e, quando sono lì, cerco la gente e…».
A questo punto, accade un fatto molto divertente. Premessa, la chiacchierata sta avvenendo davanti a un’intera parete letteralmente ricoperta, da cima a fondo, di sue immagini. Parr, mentre racconta quella che è la sua routine, si interrompe e fa un lungo sospiro: «Ci sono due fotografie appese al contrario, capovolte. Dovrei farle girare?» si chiede, lanciando poi una sfida: chi riesce a capire di quali immagini si tratta? L’impresa, dopo una caccia al tesoro durata un paio di minuti, è fallimentare e, alla fine Parr, divertito, indica le due foto: una raffigura due panini con la salsiccia, l’altra, un’anguria. «Le lascio così, perché tanto, che sono appese al contrario, lo so soltanto io. E, beh, adesso lo sanno anche i lettori di Repubblica». Alla fine, però, ne viene fuori una terza. Buona ricerca!