il Giornale, 10 giugno 2024
Il nuovo risorgimento dell’Italia unita dai poeti nati nei ’60
Il proposito di Francesco Napoli, in questa sua importante impresa saggistica, Poeti italiani nati negli anni ’60. Letteratura come condizione (Interno Poesia editore, pagg, 371, euro 20), è quello di vagliare, catalogare e storicizzare, coniugando i celebri cinque W del giornalismo anglosassone agli elementi fondanti della Summa Theologiae di Tommaso d’Aquino, quis, quid, quando, ubi, cur etc. il lavoro poetico degli autori nati negli anni Sessanta. Il risultato è di una chiarezza e di una sistematicità che chiamerei aristotelica. E il saggio si impone come un punto fermo per conoscere il vario e sfrangiato mondo della poesia contemporanea.
L’autore individua una generazione di poeti italiani, indica la loro riconoscibilità, e li colloca nel tempo della storia e nello spazio della geografia. Il Novecento, secolo breve secondo la formula di Hobsbawm, è un secolo brevissimo per la poesia: secondo Napoli va dal 1916, con l’uscita del Porto sepolto di Giuseppe Ungaretti, al 1975, anno della morte di Pasolini, e, per quanto appaiano incommensurabili i due eventi, della pubblicazione del Pubblico della poesia, l’antologia a cura di Franco Cordelli e Alfonso Berardinelli. Eravamo in 64 noi giovani antologizzati, la nuova generazione di autori nati dopo il vuoto letterario dovuto a quelle che con felice sintesi Napoli chiama poesia-azione del Movimento Studentesco e poesia-negazione della Neoavanguardia. Chi non ha vissuto allora a Milano può a fatica immaginare come era difficile negli anni a cavallo tra i Sessanta e i Settanta professare fede nella poesia. Conservo sempre una cartolina che Milo De Angelis mi mandò e che raffigurava il palazzo del Filarete, sede della Facoltà di Lettere della Statale, dove entrambi studiammo, scrivendo: «ecco il luogo così bello e così nemico». Vi giravano da padroni maoisti, katanga, stalinisti e altri non proprio benevoli verso la poesia come la intendevamo De Angelis ed io. Ma dal 1975 qualcosa improvvisamente cambiò. Tra il 1976 e il 1982, come testimonia uno studio accuratissimo di Stefano Verdino, ci fu una esplosione di poesia misurabile anche dalle rinnovate e abbondantissime iniziative editoriali. Nuove riviste, nuove collane.
I nati negli anni Sessanta trovarono questo paesaggio aperto, in fermento, disordinato ma vitale alle loro spalle quando iniziarono a scrivere. Napoli fa riferimento a Carlo Dionisotti, il critico autore di Geografia e storia della letteratura italiana, e inscrive in realtà territoriali gli autori che prende in considerazione. L’asse dominante Milano-Firenze-Roma tende a sfaldarsi, e a dare spazio a realtà regionali più diffuse. Naturalmente Milano rimane il centro della grande editoria di poesia, dallo Specchio di Mondadori alle collane di Garzanti e di Guanda. Vi era vescovo Giovanni Raboni, come a Roma era vescovo Enzo Siciliano. È vero, in entrambi ricordo di aver percepito un fortissimo senso del potere addolcito, mascherato da una mitezza personale un po’ pretesca. A Milano poi era attivo in Mondadori un gran signore come Marco Forti, e da Milano aveva mosso i passi che lo portarono a Bologna un grandissimo studioso come Luciano Anceschi, la cui opera ha individuato la distinzione tra le due poetiche centrali nel Novecento italiano, che Napoli riprende, quella dell’«allusione analogica» di Ungaretti, e quella dell’«emblematica oggettiva» di Montale, e spazia dai Lirici nuovi e da Linea lombarda sino alla rivista Il Verri.
Napoli, da storico, individua le riviste che hanno fatto epoca, Niebo prima di tutto, Scarto minimo, Braci, Prato pagano e poi enuclea le presenze poetiche oggettivamente più vivaci e consolidate nel Triveneto, in Emilia-Romagna, in Toscana, nelle Marche, a Roma, in Sicilia, in Liguria. Ci sono tutti gli autori più consolidati della generazione, da Antonio Riccardi a Gian Mario Villalta, da Alba Donati a Davide Rondoni, da Claudio Damiani a Stefano Dal Bianco, del quale ho amato molto il recentissimo Paradiso. Oltre ai profili degli autori, il libro comprende sezioni di testi esemplificativi. E per me è valso la pena di leggere o rileggere Giuseppe Grattacaso, Gianfranco Lauretano (il suo testo Dio non c’è è di rara potenza), Alessandro Moscè, Salvatore Ritrovato, Paolo Fabrizio Iacuzzi (costruttore di forti mitologemi come quello della «bicicletta Bianca»), Nicola Bultrini. Napoli segnala in Sicilia Paolo Lisi, che rappresenta bene il formidabile fermento che c’è tra i giovani poeti dell’Isola, in Liguria Massimo Morasso. Tra i fedeli al verbo neoavanguardista, pone Aldo Nove, che in barba a tarde e burbanzose posizioni teoriche scrive poesie molto belle, come Io sono un bambino, quasi mitomodernista. Isolato a Parma vive Emilio Zucchi, che però ha ottenuto riscontri internazionali di primissimo piano (ricordo come elogiò Le midolla del male un grande come Jesper Svenbro) e che a me sembra uno dei più combattivi e dei più inclini a fare della poesia uno strumento di resistenza alla barbarie dello strapotere dell’economia e della tecnologia.
Il ponderoso, necessario saggio di Francesco Napoli ci dice alla fine quanto la poesia sia viva, e come niente, di generazione in generazione potrà mai spegnerne il fuoco.