La Stampa, 10 giugno 2024
Intervista a Andrew Sean Greer
C’è un americano alto e biondo che gira per Roma con l’aria allegra del turista e il passo sicuro del garzone del bar con un vassoio di cappuccini in bilico su un braccio. È un romanziere, premio Pulitzer per la narrativa nel 2018 per Less. Si chiama Andrew Sean Greer.
Vive in Italia con il suo compagno da una decina d’anni, ma dà la sensazione di trovarsi sempre in mezzo all’Oceano, apolide per entrambe le sue patrie: quella di nascita, che continua a guardare da lontano, incerto tra il giudizio spietato e una carezza di conforto, e quella d’adozione, amata e criticata allo stesso modo.
Da una raccolta di racconti originariamente pubblicata nel 2000 ma comparsa nel nostro Paese solo ora col titolo Com’è stato per me (La nave di Teseo, traduzione di Elena Dal Pra), Greer emerge per come era prima che tutto cambiasse: prima dei romanzi, prima di vivere della propria scrittura, prima di trasferirsi, prima di trovare l’amore, prima di farsi una ragione del suo constante saltare da una definizione all’altra. Prima di trovare la pace, di mettere a punto quel passo sicuro che lo fa navigare da ammiraglio in un Paese straniero.
Roma la ispira?
«Mi lascia tranquillo, ed è un grande traguardo».
Ha riletto i racconti di “Com’è stato per me”?
«Non lo faccio mai, ma so che riflettono un Andrew più giovane, che voleva essere uno scrittore e non sapeva se lo sarebbe diventato. Sono molto più drammatici di ciò che scrivo ora. Alcuni li ho scritti a vent’anni».
Ora si prende meno sul serio?
«Non mi sono mai preso sul serio. Ma da giovane pensavo di dover dare questa impressione».
Ho una domanda di una banalità imbarazzante…
«La faccia, spesso portano a risposte illuminanti».
Cosa direbbe al sé stesso ventenne, oggi?
«Ho una risposta di una banalità imbarazzante».
Me la dia, non si sa mai…
«Che andrà tutto bene. Ma d’altra parte se gli dicessi così magari lavorerebbe meno duramente. A vent’anni non avevo soldi né certezze. Pensavo di dover essere perfetto, perché non avrei avuto un’altra occasione. Ovviamente, poi avrei scoperto che di occasioni ce ne sono molte di più».
È andato tutto bene?
«Va sempre tutto bene – e con questa affermazione mi sono garantito il karma negativo. Ecco, forse quello che mi direi è di non preoccuparmi. Com’è stato per me rappresenta il contrario di tutto ciò che uno scrittore avrebbe dovuto fare. È romantico, speranzoso, barocco. Allora ti insegnavano a scrivere come Hemingway: poche parole, immerse nel dramma del reale. Quello che ho scritto io era molto poco cool. Ho capito che paga molto di più seguire la propria natura che cercare di essere visti come non si è. Io non sono un fico, quindi è meglio non cercare di farlo. Il ragazzo che ha scritto quei racconti aveva un gran bisogno di sentirsi amato».
Si sente amato?
«Sì. Molto. Mi rattrista un po’ pensare a me da giovane, ma sì. Oggi mi sento molto amato e ne sono grato».
È una cosa bella…
«È bello anche guardare indietro e poter vedere la propria ingenuità, ciò che si era già destinati a diventare. Nel mio caso, un “romanziere comico”, anche se questo corrisponde solo ai miei ultimi due libri, per il resto ho cercato di fare cose serissime. Però penso che, per quanto drammatica sia la motivazione, il tragitto debba sempre essere divertente».
La realtà la aiuta?
«Immensamente. David Sedaris dice che per far ridere basta prendere appunti sul reale. Facendo un po’ di attenzione, la realtà è già infarcita di comicità così com’è, senza bisogno di aggiungere considerazioni spiritose».
Mi fa pensare alla recente uscita del Papa sui gay.
«Un perfetto esempio di tragedia comica. Mi sono chiesto subito come gli fosse venuto in mente di usare proprio quella parola, dove l’ha imparata? Mi è sembrata una gaffe che avrei potuto fare io cercando di parlare italiano al passo coi tempi. Anche se non avrei espresso un concetto del genere».
Come si sente da scrittore gay nell’Italia di oggi?
«Le persone mi trattano molto bene, sembra che non gli importi affatto del mio orientamento. È un sollievo. Non essendolo, non sento la necessità di rientrare nello stereotipo del maschio italiano. Sono già piuttosto goffo da americano, quindi non sento il dovere di scusarmi ulteriormente».
È facile?
«Lo è a livello personale, ma quando penso al fatto che il governo è estremamente ostile ai gay, diventa difficile. A volte, quando mi trovo in qualche paesino la cui amministrazione è evidentemente di destra, mi sento a disagio. Poi mi dico: “Perché mai devo sentirmi in difetto? Sono una persona simpatica!"».
È vero.
«Ho una teoria nella vita: se rimarrò fedele a me stesso e continuerò a mostrarmi interessato e gentile, allora forse anche le persone meno inclini all’inclusione si ricorderanno di me come un americano alto e impacciato ma cordiale, e penseranno che, dopotutto, per lo meno noi gay siamo divertenti. Spero che questo cambi un pochino le cose».
La letteratura aiuta?
«Fino a un certo punto. Non sono un grande amante delle etichette, per anni i miei romanzi sono finiti nella sezione LGBTQIA+ delle librerie, quando io volevo solamente che venissero letti, al di là del pubblico di riferimento o i temi trattati. Le definizioni possono essere molto limitanti».
È sempre così?
«Lo è se non le si applica con attenzione. In America si è compiuta una grande e importante opera di ristrutturazione dell’arte per superare l’egemonia del maschio, bianco, eterosessuale. In quel senso è stato fondamentale imporre delle definizioni alternative per facilitare la scelta. Poi, però, occorre essere in grado di superare le etichette e passare oltre, tornare a normalizzare».
Lo vede accadere qui?
«Ogni tanto. Ad esempio, qui ci sono moltissimi scrittori di seconda generazione che vogliono, giustamente, essere considerati scrittori italiani e non più “migranti”. È il momento giusto per selezionare e passare oltre; imporre l’importanza della diversità e favorire la normalizzazione».
Bisognerebbe che tutti la pensassero così.
«No, non direi. Un pensiero non deve essere universalmente condiviso per attecchire, e non deve nemmeno provenire dalla maggioranza. A volte basta una piccola convinzione a far scattare un incendio».
In America è diverso?
«No. L’ostilità è ancora molto presente. L’unica differenza è che lì tutti vogliono parlare di orientamento sessuale, di appartenenza etnica, di inclinazione, è impossibile lasciare la questione fuori dalla conversazione. È molto fastidioso».
Le manca il suo Paese?
«Non ora. Quando sono lì ho la sensazione che tutto dipenda da me, di non stare facendo abbastanza per cambiare le cose. Qui sono sollevato dalla responsabilità, non ho colpe. Certo, questo non mi libera dall’imbarazzo per come stanno andando le cose. Se siamo fortunati, questo momento non passerà alla Storia».
E lei, come vorrebbe passare alla storia?
«Come un bravo scrittore. Vorrei che la Storia si dimenticasse del resto».