La Stampa, 10 giugno 2024
L’isola delle capre
ALICUDI (Messina)
«L’Arca di Noè? In confronto sarà stato un gioco da ragazzi». Sorride Italo Palermo, delegato del sindaco ad Alicudi, la più piccola delle isole delle Eolie, un cono vulcanico alto settecento metri e scagliato in mezzo al Mediterraneo. Lo scenario perfetto per evocare la narrazione biblica delle coppie di animali messe in salvo dal diluvio universale.
Ottanta residenti stabili, niente macchine, niente strade, solo muli che portano su per mille gradini di lava – mille – generi alimentari e materiali da costruzione. Gli umani devono farla a piedi, troppo pericoloso salire in groppa agli instancabili equini che ogni tanto cascano giù dalle trazzere senza recinzione. Isola incredibile, isola percorsa da storie di magie e di sortilegi – barche che volano, fantasmi che appaiono, banchetti notturni – isola che adesso ha una bella «capra da pelare», per dirla ancora con Palermo cui non manca la battuta.
Il punto è che non è solo una la capra, ma sono seicento. Tante infatti ne conta questo scoglio appuntito e nero dove le poche miti quadrupedi domestiche introdotte una ventina di anni fa, e poi scappate o messe in libertà, sono diventate un esercito inselvatichito capace di equilibrismi che neanche gli stambecchi delle Dolomiti. E affamato come una mandria di bufali. Al punto che dagli anfratti della montagna sono scese, di gradino in gradino, alla ricerca della tonnellata di erba quotidiana necessaria per loro a sopravvivere, fino a raggiungere le case delle contrade La Tonna, San Bartolo, Pianicello. Fino ad arrivare al porticciolo, di solito popolato solo dai muli caricati di pacchi di pasta e bottiglie d’acqua pronti a scalare il fianco del vulcano.
«Capre, capre, capre», per dirla con Sgarbi. Capre a devastare gli orti coltivati da agricoltori eroici che sfidano pendenza e fatica, capre a demolire i muretti a secco che sono patrimonio Unesco, capre fuori dalla finestra di casa. In media ce ne sono sette per ogni abitante. «Così non si può più andare avanti», è stato il coro dei residenti. Ucciderle? Giammai. Sterilizzarle come suggeriva la Lav? Macché.
Il dipartimento dello Sviluppo rurale e territoriale della Regione siciliana, d’intesa con il sindaco delle isole Eolie Riccardo Gullo, ha pensato a una soluzione di ispirazione biblica, appunto. Darle in adozione e trasportarle su novelle arche di Noé. Il bando, scaduto il 10 aprile, è stato un successo, al netto delle polemiche degli animalisti che profetizzano per i quadrupedi la possibilità di un destino sulla griglia. Venticinque domande, esaurita in pochi giorni la disponibilità dei seicento capi. Solo che l’allevatore dei Nebrodi che se n’è visti assegnare 150 con tre diverse società (il limite di ogni richiesta era di 50) da allora attende il via libera per andarli a ritirare a sue spese al porticciolo di Alicudi, come prevedeva l’avviso. E chissà ancora quando attenderà. «La ditta toscana che si è aggiudicata l’appalto per la cattura – racconta ancora Palermo – forse non ha fatto i conti con l’orografia di quest’isola. Fatto sta che sono venuti una prima volta per un sopralluogo e non si sono più visti».
L’impresa è da Guinness. «I capi catturati, dopo essere stati immessi in apposite gabbie idonee per il trasporto nelle condizioni di benessere previste dalla legge, e avere superato i test sanitari ad opera dell’Asp di Messina, verranno assegnati agli allevatori», recita l’avviso pubblico. Ma provate a immaginare che cosa significa catturare a mani nude seicento capre e caproni selvatici arroccati a settecento metri di altitudine, senza neanche il supporto di un mezzo motorizzato per trasportarle a valle.
Così la storia del trasporto delle capre ha cominciato a destare più sorrisi divertiti che altro, mentre il recinto predisposto a monte della pista di elisoccorso – quello dove devono svolgersi i controlli sanitari prima dell’imbarco – resta desolatamente vuoto. Come prenderle e portarle giù? Per non dire che il piano, secondo programma, dovrebbe durare due anni e mezzo, un tempo sufficiente a fare riprodurre quelle in attesa di essere catturate.
«Io non ne ho mai vista una», racconta Gaspare Caruso, il medico di guardia che per cinque giorni al mese si prende carico delle emergenze di questa comunità aggrappata alla roccia. Se al centesimo, millesimo gradino qualcuno cade, si ustiona, ha la febbre, gli tocca mettere lo zaino in spalla e cominciare l’ascesa del vulcano. Storia che da sola meriterebbe un film. Merita amarezza invece la dotazione del suo ambulatorio sul mare: qualche farmaco, un apparecchio per l’elettrocardiogramma e poco più. «Nessun incidente con le capre, almeno finora», scherza.
Fatto sta che, mentre gli erbivori sono cresciuti, l’isola si è spopolata di umani. Adesso la popolazione scolastica è costituita da un solo bambino di quattro anni, Cristian. «Frequenta l’asilo sull’isola di Lipari, si trasferisce lì con i nonni, non c’è altra scelta», racconta la giovane mamma, Luana Virgona, che ha aperto al porticciolo una piccola boutique. «Quando sono arrivata io, era il 1996, ce n’erano 26 di alunni, dalla primaria alle medie», ricorda Teresa Perre, una delle figure chiave di Alicudi, maestra elementare milanese arrivata qui «per un errore di compilazione della domanda di assegnazione» e mai più andata via «per dare una scuola ai bambini che allora avevano soltanto una stanza in affitto, aula d’inverno e casa per turisti in estate». Adesso la scuola c’è, ed è una scuola bellissima cui si arriva dopo 356 gradini, con un’aula dotata di tutto e annessa una spettacolare biblioteca donata dalla vedova del giornalista e scrittore Franco Scaglia. Ma non ci sono più i bambini. Stringono il cuore le sedioline vuote, gli autoritratti degli ultimi che l’hanno frequentata. L’isola delle capre non fa più figli, minuscolo specchio del Paese. —