il Fatto Quotidiano, 10 giugno 2024
Europee, débâcle 5 Stelle: Conte non vince la sfida pacifista
Gli avevano chiesto – pochi giorni fa, su La Stampa – cosa sarebbe cambiato se “per pura ipotesi” il Pd avesse staccato il Movimento Cinque Stelle di 10 punti. E Giuseppe Conte aveva risposto: nulla. La “predisposizione alla coalizione”, diceva con il consueto avvocatese, rimarrà “inalterata”. Ma la “pura ipotesi” si è avverata eccome, Elly Schlein lo ha staccato addirittura di 15 punti e a cambiare, oltre ai rapporti di forza, sono i contorni di un Movimento che esce da queste elezioni europee azzoppato, parecchio azzoppato. Perde, Giuseppe Conte, almeno 5 punti percentuali: è al 10 per cento, quando sono state scrutinate oltre la metà delle sezioni. E perde – se possibile in maniera ancora più rumorosa – la battaglia su cui ha investito le maggiori energie degli ultimi mesi: Bari, la città in cui ha rotto senza troppi convenevoli l’asse giallorosa – se gli exit poll saranno confermati – sceglierà il suo sindaco tra Vito Leccese (l’uomo di Decaro sostenuto dal Pd) e il leghista Fabio Romito. Il candidato di Conte, Michele Laforgia, resta fuori dai giochi, fermo al 20%.
La botta è fortissima. E nel quartier generale di via di Campo Marzio, la sentono tutta. Le vaghe speranze di aver “tenuto” – quando la forchetta degli exit poll davano M5S in una forchetta tra il 10 e il 14 per cento – crollano rapidamente. Tanto più se paragonate alle ultime Europee, quando il Movimento aveva preso 4 milioni e mezzo di voti (il 17 per cento, con affluenza al 56); più o meno lo stesso bacino di voti delle ultime Politiche, in cui aveva ottenuto il 15 per cento, per un totale di 4 milioni 335 mila voti. Numeri oggi inimmaginabili.
Conte è rimasto a casa fino alle 2. Poi arriva al comitato e parla di un risultato “molto deludente”. Dice che “avvierà una riflessione interna”. Ma le analisi a caldo dei suoi, vertono già tutte sull’astensione che a Sud – culla del M5S, su cui il leader ha puntato tutto anche questa volta – è sotto la già disastrosa media nazionale. E poi c’è la scelta – “che rivendichiamo”, dicono – di non aver candidato il leader, convinti che il santino elettorale fosse un inganno da non sottoporre agli elettori.
Ma è chiaro che non sono spiegazioni sufficienti. E non solo perché l’alleato di coalizione ha tutt’altro da festeggiare. Ma perché il timore è che stia venendo a galla il limite di un Movimento che fatica a trovare nuova linfa. Esaurita la spinta dei cavalli di battaglia della fase contiana – dal reddito di cittadinanza al cosiddetto green – da mesi Conte aveva deciso di puntare sulla battaglia pacifista. Sul tema però è arrivata la competizione non solo di Avs (che ha doppiato il voto di cinque anni fa) ma anche della lista Santoro, che è andata a pescare nello stesso bacino: non raggiungerà il quorum (la danno al 2,5%), ma è riuscita a conquistare un pezzo di elettorato che ha considerato il no alla guerra il motivo fondamentale per recarsi alle urne. Quello che non è riuscito, o almeno non abbastanza, ai 5 Stelle. Tant’è che Conte aveva provato a battere su altri tasti: nel comizio-spettacolo che ha portato in giro in questa campagna elettorale, per dire, sono finiti spezzoni di Food for profit, il documentario di Giulia Innocenzi sul lato oscuro dell’industria della carne.
Ma oltre ai temi, ci sono le persone. E tolto l’unico “big” (l’ex presidente dell’Inps Pasquale Tridico), alcuni nomi rappresentativi per alcuni mondi (Giuseppe Antoci per l’antimafia, Ugo Biggeri per la finanza etica, Carolina Morace per lo sport) e alcuni “veterani” come Dario Tamburrano, Gianluca Ferrara e Sabrina Pignedoli, il resto è un esercito di sconosciuti. Ed è sul tema della classe dirigente dei 5 Stelle – e quindi delle liste che è in grado di mettere insieme – che si incista l’annosa vicenda dei 3 mandati su cui da sempre Conte sostiene di subire la contrarietà del “garante” Beppe Grillo. “Io lo farei, ma Beppe non vuole”, è un po’ il refrain che è stato fatto circolare negli anni. Eppure non è un mistero, per chi è addentro le vicende del fu “non” partito, che sia lo stesso Conte a non avere alcune voglia di veder crescere i “quadri” di un Movimento che ha assunto le sue sembianze. Al punto che oggi, se gli passasse per la testa di dimettersi, nessuno sarebbe in grado di fare il nome di un possibile sostituto.