la Repubblica, 10 giugno 2024
A Matteotti che difese la democrazia
Ci sono almeno tre aspetti della vita di Giacomo Matteotti che fanno sì che abbia un senso ricordare oggi, con attenzione e rispetto, la sua nobile figura, non soltanto per la sua morte violenta che lo ha reso una vittima, forse la più illustre, del fascismo, ma anche come un esempio di vita cui guardare e far riferimento per attraversare oggi le nebbie del nostro mondo in trasformazione.
Il primo. La biografia di Matteotti – il suo pensiero, le sue scelte – racconta di un uomo che ha saputo vivere sino in fondo dentro il proprio tempo. Un tempo in cui l’irruzione delle masse come protagoniste della storia aveva spinto le parti politiche a far fronte, in un modo o nell’altro, a quella straordinaria novità antropologica e sociale: organizzare le masse, alfabetizzarle, inquadrarle, fomentarle, arginarle, farle innamorare di un leader, “nazionalizzarle” e mandarle a morire nelle trincea d’Europa. I valori, le ideologie, gli interessi, i calcoli, le circostanze spingevano a fare l’una o l’altra cosa, ma quel che non si poteva più fare era ignorare le masse.
L’adesione al socialismo di Matteotti, piena e appassionata, ci dice della sua idea di perseguire con determinazione la giustizia sociale, la dignità del lavoro, l’allargamento dei diritti dei lavoratori, realizzata a partire dal sostegno alle lotte bracciantili nel suo Polesine. Un impegno riformista, il suo, destinato a scontrarsi con un’altra visione dell’organizzazione sociale di cui lo squadrismo fascista, proprio nelle sue terre, si sarebbe fatto benpresto mano armata per difendere i proprietari agrari dalle rivendicazioni dei lavoratori.
Il secondo aspetto riguarda la fede di Matteotti nella democrazia parlamentare. Egli, infatti, è stato un sincero democratico, attento alle procedure della democrazia e preoccupato nel vedere minacciati i meccanismi di garanzia della democrazia stessa, in particolare quello spropositato premio di maggioranza che con la ratifica della legge Acerbo avrebbe trasformato il partito fascista nel padrone del Parlamento. Parlamento per il quale Matteotti nutriva un rispetto totale, in quanto luogo deputato al confronto politico e civile che il deputato socialista aveva visto trasformarsi sotto i suoi occhi in luogo di sopraffazione e di violenza.
Matteotti sceglie il Parlamento per far sentire la sua voce in un discorso celebre e importante, quello del 30 maggio 1924 che abbiamo ricordato, nel quale denuncia le violenze in cui si sono celebrate la campagna elettorale prima e poi le votazioni e lo scrutinio. Decide di parlare in quel consesso, tempio della democrazia e, in qualche modo in quel tempio egli inizia a morire: il suo stesso discorso (e lo scranno da cui lo pronuncia) diventano il luogo della sua morte e il suo ultimodiscorso incarna il suo corposparito.
Un discorso interrotto, lacerato dalle ingiurie, sempre sul punto di essere soffocato dalla sopraffazione degli avversari politici fascisti, che velocemente hanno assunto l’aria arrogante dei nuovi padroni, eppure un discorso capace di riprendere forza e lanciare con vigore il suo grido di denuncia. Un grido sempre più disperato che è riuscitonell’impresa di giungere sinoa noi.
Il terzo e ultimo aspetto investe la sua lungimiranza e coraggio. Matteotti capisce tra i primi che è in gioco il futuro stesso della democrazia ed è capace di intravedere ciò che sarebbe accaduto. Lo fa in un momento in cui ancora in molti, forse in troppi, considerano il fascismo una parentesi passeggera se non un ponte tutto sommato abbastanza confortevole per traghettare l’Italia fuori dalla minaccia rivoluzionaria. Già nei primi due anni della presa del potere da parte di Benito Mussolini, un periodo in cui la storiografia stessa non rintraccia i caratteri del regime totalitario che poi sarebbe durato un lungo e sempre più tragico ventennio, Matteotti lancia con preveggenza un grido d’allarme: per lo smantellamento della democrazia, per l’attacco alla libertà di parola, per le intimidazioni e le violenze fisiche perpetrate dagli squadristi agli ordini del duce. Tutti elementi che nei mesi successivi sarebbero diventati l’ossatura autoritaria del fascismo trasformatosi in regime.
Matteotti non è stato il solo a opporsi con vigore al fascismo, ma la sua tragica parabola fa apparire la sua voce, a posteriori, una sorta divox clamantis in deserto e il suo sacrificio quello di un vero e proprio martire della democrazia italiana. Non è stato il solo a opporsi, è vero, ma certamente egli lo ha fatto con un coraggio che ancora oggi sorprende, consapevole dei rischi che correva, e lo ha fatto come se non potesse fare altrimenti che difendere sino in fondo i propri ideali anche a costo di andare nel senso opposto alla corrente della storia. Andare controcorrente rispetto a quanti per interesse, per ignavia, per paura, per cinismo si assieparono ai due lati della strada con le braccia incrociate a guardare correre il fascismo verso l’occupazione di ogni spazio democratico, chi battendo forte le mani e chi accennando un malizioso sorriso ma tutti così simili a quell’Italia petrarchiana che «i suoi guai non par che senta: vecchia, oziosa e lenta». L’Italia di ieri e quella di oggi.